Quel ’68 definitivamente capovolto

Naufragati grandi sogni, si naviga nella condivisione delle banalità

“Vedendo passare in corteo i sessantottini, Eugène Ionesco li ingiuriò con una profezia: diventerete notai. In effetti molti di loro passarono da Agito ergo sum a Rogito ergo sum. La contestazione finì in cointestazione” (Marcello Veneziani, “Rovesciare il ’68”, Mondadori 2007)

Autostimolatomi questa volta, forse per blocco meningeo dato dai rigori dell’inverno, a discettare (non che ce ne fosse bisogno sia ben chiaro ma oggi gira così) su flussi e riflussi del ’68, mi è sovvenuto un ricordo abbastanza recente. C’erano sì e no una decina di persone (nostalgici, curiosi, sospesi nel tempo?) ad un dibattito di pochi anni fa sulla quasi planetaria storia protestataria di 54 anni fa, alla presenza del politologo Paolo Pombeni (Professore emerito di Scienze Politiche all’Alma Mater bolognese), che per i tipi del Mulino ha pubblicato il pamphlet “Che cosa resta del ’68” (senza punto interrogativo).

Appuntamento che allora avrebbe meritato miglior sorte ma sintomatico comunque di come la celebrazione dell’oltre mezzo secolo che ci separa dalla prima forma di rivoluzione culturale globale e globalizzante, seppur inizialmente non organizzata, sia passata sottotraccia. Non fosse per la consueta pubblicistica di estrema nicchia ed altrettanto estrema resa, nel doppio senso editoriale di copie invendute e di collocazione intellettuale a prescindere.

Quello che però ci interessa in questa sede non è la generale analisi sociologica di quello che del ’68 ha varcato i confini temporali innestandosi nella sensibilità moderna e di quello che invece è rimasto aldiquà del bardo, nel limbo spaziale delle pretese rivoluzioni interrotte. Bensì sottolineare un aspetto germinale (nella sua accezione negativa tra i tanti indubbiamente positivi che ha avuto quel sogno generazionale) che collega quell’epoca ai giorni nostri, seguendo la logica (non empirica ma teorica) di un filo rosso antropologico.

Il primo riguarda la difficoltà strutturale nel portare a termine (fors’anche nell’iniziare) un vero processo riformatore (o riformista) di alcuni settori e istituzioni del Paese; l’imperituro approccio morale (di facile discesa nel moralistico) con cui si affronta la discussione politica, divide nettamente ed a priori le parti in campo. Senza o quasi possibilità di arrivare a una mediazione di fronte ad un interlocutore individuato, da entrambi i lati, come vizioso perché collocato, sempre e comunque, dalla parte sbagliata. La presunta superiorità ideale che ciascuno competitore si auto attribuisce non solo blocca sul nascere qualsiasi ipotesi di soluzione ma impedisce di fatto quel necessario processo di autocritica sulla strada della composizione di un problema. L’autogiustificazione di molte scelte sulla base di una presunta certezza che comunque si agisca in vista di un bene superiore (che giustifichi dunque il ben predicare ed il razzolare male), ha origini lontane ma l’ultima declinazione deriva dalla combinazione di una critica anarchica dell’esistente unita ad una sorta di attesa millenaristica ben miscelata nelle speranze di 50 anni fa.

Il secondo tocca la sfera dell’assalto all’autorità nella sua duplice livella, di autorità certo ma ma anche di autorevolezza; l’egualitarismo scolastico a favore del voto sociale, l’equiparazione delle culture in nome del comunitarismo messianico non solo hanno realizzato il trionfo dell’individualismo senza merito né regole ma, per estensione, relativizzato anche i valori universali. Nelle società multietniche questo si trasforma in convivenza senza dialettica nel migliore dei casi e dunque in un’integrazione solo di facciata. Per estensione ulteriore, in campo politico e del sapere, nella più totale mancanza di capacità critica e pertanto costruttiva (solo le grandi dispute intellettuali e scientifiche hanno permesso la crescita dell’umanità ed il fiorire delle scoperte), per acquiescenza settaria od offensivo diverbio.

E qui veniamo al terzo, solo accennato problema, la sfera dei media e dei social-media in particolare, ovvero la residua capacità dell’uomo di confrontarsi nella polis e per la polis coi “semplici” strumenti del civile dibattito. E’ sotto gli occhi di tutti come oggi il confronto sia terribilmente inficiato da posizioni post-ideologiche spesso sradicate da un contesto sensato o dalla volontà di incontro. Il muro contro muro è palesato in modo perfino sfacciato dalle piattaforme del web.

Di qua i “buonisti” o “radical-chic”, di là i “cattivisti” o “populisti” per riabusare di neologismi banalizzanti e/o fuorvianti; potremmo definirli invece “turbovaloristi” vs “retropensierosi” e viceversa. Immersi in una indefinita materia di iperconnettività dove un parere è indistinguibile dall’altro, si è così passati dalla collettivizzazione dei sogni alla condivisione dei particolari quotidiani. In un continuo rituale di solitudine di massa scandito da clic compulsivi verso una smaterializzazione finale degli orizzonti comuni che è tanto più reale quanto più è virtuale.

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