Paolo Masi, l’artista che dipinge il futuro

Firenze – Ha da poco compiuto gli anni. Una lunga vita attraversata sotto il segno dell’arte. Una costante, quella artistica, che ha orientato tutto il suo percorso. Paolo Masi ha iniziato da giovane, quando l’Italia chiudeva un terribile capitolo della sua storia e iniziava una nuova stagione.

Ora l’intensa attività di Paolo Masi è riconosciuta a livello internazionale e il successo lo coglie di sorpresa perché la sua visione, all’avanguardia, ha sempre intercettato il futuro.

Lo incontro nel suo studio luminoso, fra i “suoi cartoni” appena dipinti. I suoi occhi chiari riflettono una luce giovane come il suo sorriso. Mi parla della sua ultima mostra, un’antologica presso la Galleria Frittelli a Firenze e delle prossime, tante, in gallerie italiane ed europee.

Paolo lei è uno dei protagonisti della tradizione astratta del dopoguerra dei pittori fiorentini. Com’è iniziata per lei l’avventura?

“L’avventura è iniziata negli anni ’50. Ero giovanissimo. Scappai da Firenze perché la situazione fiorentina mi stava stretta. Milano era il punto di riferimento insieme all’Europa. Gli Stati Uniti sono venuti dopo. A Milano vivevo con pochissimi soldi, dormivo alla Stazione Centrale,  che era sempre aperta, anche di notte. E poi nelle periferie. C’erano dei palazzoni in costruzione dove la sera si poteva suonare il jazz. Abitavo lì in qualche modo. È stata una bella avventura. Suonavo il sax tenore, senza conoscere la musica. Ecco come. La band suonava e dopo poco, entravo io con un sax più alto di me e facevo un suono enorme, poi continuava la band”.

A Milano hai conosciuto altri artisti?

“Molti. Fontana, però con un distacco… Lui era già famoso. Tanti figurativi, realisti esistenziali, Ferroni, Banchieri, Valieri, quelli erano gli amici del bar Giamaica in via Brera. Ci ritrovavamo sempre lì, mangiavamo, parlavamo. L’altra parte, che era quella astratta mi interessava di più, però a quel tempo avevo delle visioni particolari. Per esempio Ferroni mi interessava molto. Fontana fu fondamentale per me come Castellani e Bonalumi. Li guardavo con grande interesse.. Non avevo lo studio perché non avevo soldi, chiesi a Bergamini, della omonima galleria, se mi poteva dare un posto dove lavorare e vivere, alla pari, cioè i miei lavori in compenso dell’affitto e le spese. Quella fu l’occasione per lavorare bene e avere un tetto sulla testa. Questo aspetto così romantico, o tardo romantico, va bene finché si è giovani. Ma dopo un poco non era più possibile. Specialmente in Europa. Chi mi ha salvato sono state le donne, che avevano il mito dell’artista. Sfruttavo il mito dell’artista povero che aveva necessità di tutto”.

Quanto tempo è stato a Milano?

“Due anni, nel ’50 e dal 1953 fino agli anni ’60. Poi mi sono ammalato in modo abbastanza serio, praticamente avevo bronchi e polmoni messi male, come mi dissero all’ospedale militare di Baggio, e quindi iniziò tutta una storia di cure. Milano è sempre stato il mio punto di riferimento”.

E poi, rientrato a Firenze?

“Rientrato a Firenze mi avvicinai a Guarneri, Fallani, Vinicio Berti, ovviamente, Nativi, tutti, compreso Nuti e Brunetti, dell’astrattismo classico. Mi unii a loro anche se erano lontani dalla mia sensibilità e formazione. Io e Riccardo Guarneri, per esempio, eravamo già orientati verso una formazione internazionale. Sapevamo che cosa succedeva a New York, a Parigi, a Berlino, già prima di iniziare a fare dei lunghi viaggi. Importante era conoscere e guardare. Vinicio Berti conosceva moltissimo ma restava fisso a Firenze. Se gli dicevo di andare a Milano rispondeva che c’era la nebbia. È un grande artista ancora non valorizzato. Il suo difetto è stato quello di vendere a prezzi ridicoli per poter comprare dal Rigacci le tele per lavorare. Ha prodotto tantissimo”.

Qual è stato il percorso più importante?

“Il viaggio. Ho viaggiato per tutta l’Europa e, negli anni ’70, negli Stati Uniti. Naturalmente New York. Chicago era molto dura. Lì ci sono rimasto pochissimo. I galleristi a quel tempo erano tutta un’altra cosa. Praticamente lì c’era sempre un flusso incredibile di artisti e costavano prezzi allucinanti. Tornato a Firenze invece i prezzi erano bassi e questo fatto mi portava a viaggiare continuamente. Qui non avevo nessun rapporto tranne, per esempio, quando nacque Schema con Alberto Moretti. Siamo stati insieme anche a New York. Poi con Maurizio Nannucci ho visitato tutta l’Europa”.

In autostop o viaggi organizzati?

“Era il viaggio. On the road.  Mi interessava di non stare fermo, volevo conoscere tutto quello che era possibile. Andavo e conoscevo gli artisti e i loro lavori. Qualche volta non era facile entrare in contatto con loro. Per me era importantissimo. Dagli incontri riuscivo a capire cos’ero io. Mi confrontavo. Così capivo fino in fondo ciò che volevo”.

La sua formazione è stata artistica?

“La mia formazione è stata in mezzo alla strada. Mai fatto Accademia, niente. Era un rapporto veramente a livello personale. Ero spinto da una grande passione. Mentre invece quando mi invitavano all’Accademia di Firenze mi veniva sonno o da piangere. Non conoscevano niente e nessuno di quello che avveniva nell’Europa e nel mondo. Questo scappare da Firenze era continuo e vitale per me. Abitavo a Firenze, mi sono sposato con Maria Teresa, poi due figli, ma il viaggio è rimasto sempre il punto di riferimento. Eravamo sempre in giro, sempre in treno, macchina o in aereo. Negli anni ’50 addirittura in bicicletta”.

Quindi lei viaggiava, assorbiva le novità e poi tornava a casa per lavorare?

“Praticamente cercavo i rapporti a cui proporre il mio lavoro. Ho iniziato a lavorare con gallerie di Milano e Bologna.  Ma sono stati i cartoni la mia fortuna. Il cartone è come una tela ed è stato individuato come una parte del mio linguaggio veramente personale. Ovunque, a Berlino o a New York potevo recuperare i cartoni sulla strada che fra l’altro non costavano niente. Qualche volta magari c’erano delle tracce bellissime di una bicicletta o un’automobile che il mio intervento modificava completamente”.

Foto: Paolo Masi

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