Nel corso della campagna elettorale molti commentatori avevano già notato la scarsità di riferimenti ai temi della ricerca, della scuola e dell’università nei programmi dei partiti e delle coalizioni, così come nelle prese di posizione dei candidati, leader compresi. Sul piano più specifico del patrimonio artistico e paesaggistico, va dato atto al Giornale dell’Arte di aver preso un’iniziativa utile, pubblicando (nel numero dell’1/9/22, a firma di Alessandro Martini) una sintesi delle principali proposte delle varie forze politiche e calcolandone anche l’incidenza percentuale sull’insieme delle rispettive linee programmatiche. Nella pratica, cosa se ne cava? Che lo spazio che il centrodestra, rivolgendosi all’elettorato, ha riservato a tali temi (13%) batte – e di gran lunga – quello degli altri schieramenti, ed è ovvio che sarà al comportamento di queste forze che bisognerà soprattutto guardare con attenzione in futuro, verificando più che mai la congruenza fra le parole e i fatti, poiché si tratta del fronte che è maggioranza in Parlamento e che governerà.
Tuttavia, qui non c’è modo di scendere nel merito dei singoli temi sollevati, né dei provvedimenti auspicati da ciascun gruppo. Fermiamoci ancora per un attimo, invece, al gioco delle percentuali e constatiamo così che – sempre stando alle stime approssimative del Giornale dell’Arte – alleanze come Verdi-Sinistra Italiana e Azione-Italia Viva hanno riservato all’arte e alla cultura uno spazio che per ambedue si aggira intorno al 5%; il PD, che ricoprirà alle Camere il ruolo di maggiore forza di opposizione, un deprimente 4%; il Movimento 5 Stelle, addirittura lo 0,6%. Sarà anche, quello adottato dall’articolista, un sistema empirico, e da un esame più approfondito potrà magari emergere qualche correzione, poiché ognuno assembla i dati leggendoli con le proprie lenti; ma insomma la tendenza complessiva appare sufficientemente chiara (sono materie, dunque, “politicamente irrilevanti”, conclude il periodico), ed è una tendenza che non lascia bene sperare.
Una conferma, prima di riprendere il filo di questo discorso, sta nel fatto che le cose non sono certo migliorate ad urne chiuse, né nel corso delle roventi trattative per la formazione del governo Meloni. Nelle cronache giornalistiche e televisive di queste settimane, raramente è sembrato affiorare un sia pur pallido interesse verso l’uomo o la donna che avrebbe avuto la nomina di Ministro della Cultura (per non parlare dei sottosegretari): questa la mia impressione personale, e potrà certo essermi sfuggito qualcosa, ma semmai – temo – di poco momento. Solo negli ultimissimi giorni ha cominciato a circolare con maggiore insistenza il nome di Gennaro Sangiuliano, che poi è divenuto ministro. Sangiuliano è un giornalista, un docente universitario di giornalismo e di economia e un autore di saggi storici, e non ha avuto in precedenza particolari esperienze nel campo del patrimonio culturale. Di per sé questo non vuol dire, e naturalmente nessuno va giudicato prima di essere messo alla prova: gli auguriamo quindi buon lavoro, e speriamo che ci stupisca.
Ma non mi posso esimere, a questo punto, dal tornare al tema del Partito Democratico, alla luce dei dati riportati all’inizio. Ciò che sorprende – ma non mi sembra che in molti, finora, vi si siano soffermati, o se ne siano chiesti i motivi – è il fatto che questa quasi totale assenza del PD dal dibattito sul destino, nel nuovo contesto, del nostro patrimonio archeologico, storico-artistico, architettonico, paesaggistico (ma anche archivistico, bibliotecario, ecc…: e si badi bene, in un Paese come l’Italia!) viene dopo un “quasi decennio” (2014-2022) di gestione praticamente ininterrotta del ministero competente, salvo una breve e ininfluente parentesi, da parte di un esponente del partito medesimo.
Viene da domandarsi, allora, quale sia stata la reale natura, e soprattutto quale sia oggi l’eredità, della fase in cui il settore è stato retto da Dario Franceschini, o comunque ha ricevuto da lui un’impronta sicuramente profonda. Quale giudizio politico e “storico”, in altre parole, dare di questo periodo, che appare molto lungo a chi si ricordi che nella cosiddetta Prima Repubblica i ministri per i Beni Culturali duravano molto meno e lasciavano minori tracce di sé: le sole eccezioni che mi vengono in mente sono il fondatore Giovanni Spadolini, Vincenzo Scotti, Francesco Rutelli e Walter Veltroni, ma i cambiamenti da loro introdotti – pur notevoli – furono per lo più di ordine amministrativo e organizzativo, mentre quelli dovuti a Franceschini hanno investito, eccome, anche la sfera delle impostazioni culturali da dare all’azione di tutela e di valorizzazione del patrimonio. Per inciso, da un certo momento in poi il dicastero si è chiamato non più dei Beni Culturali e Ambientali, bensì della Cultura, ma qui non ho modo di parlare né di tale aspetto, né della controversa e altalenante fusione delle competenze del ministero con quelle del Turismo.
E’ invece il caso di tornare al nostro assunto. Due punti soprattutto, almeno a mio avviso, andranno sviscerati in altra sede. Il primo riguarda il termine “valorizzazione”, cui ho accennato poco sopra e che ho sempre trovato ambiguo, tutt’al più “neutro” (qualora non venga meglio precisato), o addirittura potenzialmente rischioso: Franceschini, e molti con lui, l’hanno declinato in un modo che andrà indagato a fondo, e probabilmente controbattuto (o almeno gli andranno affiancati altri e diversi significati).
L’altra questione è quella del ruolo dei beni culturali e ambientali (e, con essi, dell’impalcatura amministrativa che se ne deve occupare) nel più ampio quadro politico-sociale della nazione. Il minimo che si possa dire è che – di fronte alla repentina, impressionante scomparsa del tema stesso del patrimonio storico-monumentale dal discorso pubblico – appare “falsificato” (in senso popperiano: non verificato) il concetto più volte espresso da Franceschini, secondo cui il dicastero da lui retto doveva finalmente venir riconosciuto come il più importante ministero economico del governo. Affermazione interessante e anche giusta, sebbene, a mio avviso, ne andrebbe rovesciato il senso (ma questo è un altro discorso). In ogni caso, cosa resta oggi di simili idee? Ciò che Franceschini auspicava non è avvenuto né durante la sua gestione, né, tanto meno, sembra in procinto di avvenire d’ora in poi.
Certo, di fronte alla probabile stagnazione (o peggio) che avanza qualcuno invocherà – a mo’ di scusa – il cambio di maggioranza parlamentare e di clima politico. Ma allora, cosa si è seminato nel “quasi decennio”? I governi ai quali il PD ha partecipato ininterrottamente da tempo immemorabile, cosa ci lasciano in termini di strumentazione concettuale e di proposte concrete, che consentano di mettere in piedi – d’ora in avanti – un’opposizione robusta e di lunga lena, in questo come negli altri campi?
Si parla di un congresso del partito da tenersi in tempi brevi. E tuttavia, dalle prime schermaglie del dibattito destinato a prepararlo non mi sembra (spero, ancora una volta, di sbagliare) che le tematiche culturali e del patrimonio stiano ricevendo l’attenzione che meriterebbero, al di là di qualche svogliato e formale accenno da inzeppare in quei mitici “programmi” dei quali, a congresso finito, si perde anche la memoria. Mentre qui non è tanto questo o quel punto programmatico che dovrebbe balzare in primo piano, ma un cambio profondo di impostazione culturale e ideale: in questo campo, ma non certo solo in questo campo.