Firenze – Cosa rimane della montagna dopo lo sfruttamento umano e come si trasforma un territorio dopo secoli di depauperamento? Sono queste le domande che si è posta la fotografa Mara Giammattei a cui tenta di rispondere con una serie di immagini che documentano come l’intervento dell’uomo ha cambiato l’aspetto delle Alpi Apuane, da cui ha origine un pregiato marmo, che subiscono da sempre un utilizzo che ne modifica continuamente l’aspetto.
Mara Giammattei la sua mostra alla Galleria Ambigua ad Arezzo “Ciò che rimane” ha avuto molto successo. Presenta la forza della natura in un modo originale, ammantando il paesaggio di un fascino enigmatico e allo stesso tempo lieve…
“Per quanto riguarda il progetto “Ciò che rimane. Lasciti artificiali per le Alpi Apuane”, presentato per la prima volta alla Galleria Ambigua di Arezzo, nella cornice dell’Arezzo Crowd Festival, si tratta di un lavoro che porto avanti da anni incentrato sulla questione marmo. Le immagini che ho scelto di presentare raccontano di una realtà apuana dove l’intervento umano è portato all’estremo, fino a modificare in modo irrecuperabile il profilo montano. A questo si legano poi i problemi ambientali e di inquinamento, ovviamente. Ho scelto di rappresentare una montagna priva di persone: l’essere umano viene colto solo attraverso i segni del proprio passaggio, nell’idea, appunto, di proiettarsi in un futuro in cui delle Apuane si colga ciò che rimane, quel che noi tutti abbiamo deciso di fare a queste montagne. La fotografia, nel suo fermare singoli istanti, in questo caso può fungere da anticipazione di un futuro già attuale in cui la distruzione ambientale è già drammaticamente portata a livelli critici.
Le Alpi Apuane sono un territorio complesso sotto vari punti di vista, la loro è una bellezza schiva, difficile. Paradossalmente, l’uomo si sente più a suo agio nei luoghi che vi crea, quindi nella distruzione che provoca. L’ambiente naturale respinge l’uomo, mentre il marmo che cela mostra una bianchezza, una purezza che racconta di come l’uomo abbia imposto il proprio dominio anche sulle cime di queste montagne. A questo punto, trovo fondamentale porsi la questione dell’impatto dell’escavazione sull’ambiente e penso che la fotografia possa essere un buon modo di porre la denuncia perché rende palese il problema, fa vedere le contraddizioni e solleva la questione in un modo che non può venire ignorato”.
Mi può parlare del suo lavoro e della sua poetica?
“Nel caso di “Ciò che rimane” si tratta di un reportage di denuncia, ma anche di un’interrogazione circa il rapporto tra uomo e natura, più specificatamente tra uomo e montagna. Nel mio far foto ricerco l’elemento naturale, le montagne sono da sempre uno dei miei soggetti preferiti: sono nata e vivo in montagna, quindi è un qualcosa che fa parte del mio immaginario in ogni istante. La fotografia naturalistica è anche un tentativo di risolvere la frattura che la società si è imposta, un tentativo di ritrovare una dimensione altra da quella che la vita quotidiana ci impone e che ci obbliga lontani da una natura che disimpariamo sempre più a conoscere e a vivere.
Nel mio modo di fare fotografia la natura e l’ambiente, si intrecciano con un elemento umano che cerco di cogliere nella sua complessità: fotografare qualcuno è una faccenda complicata, si tiene in mano l’immagine dell’altro e è compito del fotografo restituirne l’umanità. Il ritratto racconta l’incontro tra due mondi diversi, lontani e a tratti inarrivabili, ma che insieme creano immagini che raccontano cose che trascendono entrambe le persone. Fotografare qualcuno è difficile e mai scontato perché ci si trova presto o tardi a fare i conti anche con sé stessi e con ciò che l’immagine dell’altro ci palesa di noi stessi”.
Può dirmi qualcosa della sua tesi su fotografia e malattia mentale?
“Mi sono laureata in scienze filosofiche con una tesi dal titolo “La fotografia e lo stereotipo. Costruire la malattia mentale attraverso le immagini”. Mi sono interrogata sul rapporto che intercorre tra fotografia e follia, il modo in cui la prima partecipi della creazione dell’immaginario legato alla pazzia e, soprattutto, dello stereotipo del matto.
Le fotografie che sono state raccolte nel Novecento dai fotografi vicini a Basaglia e al movimento antipsichiatrico, vedi Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, ma anche Luciano d’Alessandro nello stesso periodo e Raymond Depardon a ridosso degli anni ’80, volevano denunciare la situazione manicomiale, come hanno appunto fatto e è anche grazie a chi ha deciso di fotografare il mondo chiuso e nascosto del manicomio, se è stato possibile arrivare alla legge n. 180. Il rovescio della medaglia, però, riposa sul modo in cui la fotografia certe volte sa essere un medium inclemente: le medesime immagini che hanno permesso di sollevare il problema, allo stesso tempo, sono anche quelle che permettono di incrementare l’immaginario del pazzo. Del resto, cosa si vede guardando quelle fotografie? Persone la cui umanità è ridotta a un cumulo di cenci, posture contorte, generale aspetto di miseria, camicie di forza e paura. Cosa rimane oggi di quelle fotografie? La conferma dell’esistenza del pazzo come qualcuno con connotati precisi e facilmente riconoscibile, per questo, facilmente stigmatizzabile.
A tutto questo ho affiancato anche una ricerca fotografica personale che è iniziata all’università e che sto portando avanti ancora. Ho fatto anch’io dei ritratti ai “matti”, ponendomi sia come fotografa che come filosofa, provando a vedere se c’è un modo per evitare lo stereotipo, se è possibile evitare che l’immagine diventi la pubblicità di ciò che non vorrebbe essere. Non ho ancora raggiunto una risposta, ma mi piacerebbe che fossero le persone stesse a prendere la macchina fotografica in mano per rappresentare autonomamente il proprio mondo e il proprio sé”.
Su cosa sta lavorando adesso?
“Attualmente, sto lavorando a un nuovo progetto. Si chiama “Claustrofobia” e sarà in bianco e nero. Durante questo nuovo lockdown mi sono trovata a recuperare le foto fatte in questo anno di pandemia e ho scoperto dei fili comuni tra alcune fotografie, tra questi un generale senso di angoscia e disagio figli del momento storico. Tratta di questo, ma anche del corpo come ponte tra interno e esterno, gabbia dalla quale è impossibile prescindere e che si pone anche nei termini di un’alterità complicata dove si mostra la storia biografica della vita che incarna. è ancora tutto in divenire, però sta prendendo forma”.
Quali mostre sta preparando?
“Nel prossimo futuro farò girare “Ciò che rimane” tra Arezzo, Castiglion Fiorentino, grazie a un’associazione con cui collaboro da anni, chiamata “L’ulcera del signor Wilson”, Pistoia, Firenze; per via del covid-19 ancora non ho date precise. Ho altre mostre in cantiere con il Collettivo Arkadia, sia per il progetto sulle Apuane, sia per un lavoro più legato alla questione pandemia”.
Progetti futuri?
“Spero di poter riprendere al più presto il lavoro sull’immagine della follia, ma anche ricominciare a raccogliere fotografie di cave e Apuane. In generale, continuare a lavorare ai progetti a cui mi sto dedicando, “Claustrofobia”, per esempio, mi porta via molto tempo”.