Madrebianca. È il titolo del libro (appena uscito presso la collana di poesia di Passigli Editori, fondata da Mario Luzi) di Rosalba de Filippis. Madrebianca / non di marmo o pietra levigata, recitano i versi. Versi scarni, essenziali, eppure evocativi, che toccano nel profondo. Il tema è l’assenza- presenza di una madre, che ha concluso il suo viaggio terreno, lasciando, tuttavia, nella casa, negli ambienti, nelle cose minute che ogni giorno si riscoprono, infiniti segni della sua esistenza, della sua storia, del suo modo di essere.
Segni di cui l’autrice, con sensibilità, sguardo e parole di figlia si trova a dare conto. Dividere i cassetti coi lenzuoli / dai libri e le riviste che tenevi / le carte conservate dei tuoi allievi è cosa ardua. Sono tracce di una vita. Delle quali si vorrebbe comunque aver cura. Quasi a voler dare una rassicurazione che più non può essere udita: proteggo come posso le tue piante / le immergo / e non ci sei. Ci sono, d’altra parte, rimpianti che riemergono: Lasciarti da sola / è stato uno sbaglio. E poi c’è il desiderio di un dialogo. Un muto, eppure fondamentale, dialogo le cui parole non possono risuonare ormai che nell’intimo dell’anima: Ti vorrei far vedere / la mia casa di adesso / e le piante sul vano. / Ora ogni cosa ha un suo posto / come mai nel passato. / Ti vorrei far vedere / le stoviglie pulite / e il recinto dell’orto / e la mano più ferma del figlio. / E potremmo parlare / mentre insieme andiamo al cancello/ e osserviamo l’ibisco / con il bulbo nascosto.
Il libro è dedicato alla madre, ma la madre non è l’esclusivo riferimento di questi versi. C’è, appunto, il figlio. La vita va comunque avanti ed ecco il figlio cresciuto quasi a caso / in questo luogo in cui non muta niente. / Sei tutto di spalle / conosco il tuo sguardo / figlio voluto. E affiorano altre memorie. Come quella (in uno dei testi) del padre: Papà, / papà mio / mi preparo a sfiorarti in età, / a breve saremo fratelli / fratello mio. Come spesso è nella poesia, le parole nascono da suggestioni e danno forma ad immagini che, a prescindere da una singola e specifica storia, parlano alla sensibilità generale. Quella di chiunque vi si accosti e legga.
La poesia, è stato detto, più che all’ autore, appartiene a chi ne recepisce il suono, il significato, la musicalità e il messaggio. Così è anche in questo caso. C’è un sentire, cui viene dato espressione, che nasce dal ricordo di una storia, di una madre (e, come abbiamo visto, anche di un padre). È quella, specifica, storia, è il ricordo di quella particolare madre che ha dato la spinta a trovare le parole per raccontare un distacco, un dolore, un’assenza e un dialogo che comunque continua e si mantiene, nell’intimo, al di là della scomparsa della persona cara. Ma chiunque sia sensibile a questi temi (così importanti e così universali) può trovarvi un’eco che gli risuona dentro.
La letteratura e la poesia partono spesso dal particolare e dall’individuale e parlano, quando vi riescono, dell’universale. D’altra parte, ricostruendo il percorso di Rosalba de Filippis, non è forse improprio sottolineare il peso specifico che ha avuto probabilmente, nella formazione della sua stessa sensibilità poetica, una particolare storia familiare. Quella che l’autrice, in un libro scritto insieme ad Antonio. D’ambrosio, ha raccontato in una forma che si colloca a metà fra ricostruzione storica, biografia e testo narrativo.
Il libro è La casa del platano (CartaCanta editore, FC 2018), in cui viene raccontata, sul filo della memoria, la singolare vicenda (che sembra estratta da un romanzo di Ignazio Silone) della propria famiglia, una famiglia di possidenti di un paesino dell’entroterra molisano, che si spogliano dei loro privilegi e dismettono «i panni del ricco» per dare un’istruzione, una formazione politica e la coscienza dei propri diritti ai «cafoni», alla povera gente del proprio territorio. Si tratta, si potrebbe osservare, di un retroterra che comunque è confinato in una dimensione ormai lontana, per quanto depositata al centro della propria memoria. Eppure, di quella storia lontana, di quelle memorie, di quel retroterra, in Madrebianca, c’è traccia, eccome.
È quando l’autrice si rivolge idealmente alla madre, come in una ancor presente scena di vita, in dialetto molisano. Con le parole che si usavano nel paesino di Macchiagodena o a Isernia, quelle con cui il padre e la madre si rivolgevano alla gente del popolo della loro terra. Mamma / ti sì scurdata / la macchinetta ‘ncoppa a lu fornello / so’ venuta e l’ho stutata / ma si era tutta fusa / n’ata vota / tu che tenevi sotto il lavandino / stoccaggi di pentole attaccate. Resta certo il fatto che quella persona, quella madre che ha combattuto le sue battaglie sociali, ha insegnato ai suoi alunni, ha avuto un certo tipo di relazioni con la figlia (che, con confidenza amorevole, le dice: Madre mi so’ scucciata), è ora rivissuta e rappresentata come madrebianca.
Cioè, come un’idea, un’immagine, una memoria di madre, filtrata attraverso le immagini, i ricordi e le emozioni della figlia-autrice, che può tuttavia ormai parlare a tutti. Come dice benissimo Sergio Givone, nella prefazione al libro, questi versi («dedicati alla madre») sono testimonianza di una presenza che «dileguandosi resta scolpita nel cuore e di un’assenza che rimanda a quanto di sacro è in noi». Autrice di varie raccolte di testi poetici e di due poemetti (Danielle, 2013; Le sorelle in aria, 2017), anche in questa sua prova, la lirica di Rosalba de Filippis (come dice ancora Givone), «interamente votata alla realtà nelle sue espressioni più comuni e più intime (…) volge ad essa uno sguardo capace di comprenderla alla luce di un più alto principio. Non per trasfigurarla. E tantomeno per spiegarla in chiave metafisica. Ma per farne poesia».