Voto di fiducia, o meglio, questione di fiducia. Si sta parlando di uno degli strumenti più utilizzati dai governi italiani per ricompattare i propri sostenitori ma soprattutto per velocizzare e sterilizzare specifici progetti di legge, considerati fondamentali e irrinunciabili per mettere in atto in concreto il programma governativo.
Strumento che è nato, come spesso accade, per altri motivi, sostanzialmente per contare il sostegno della maggioranza parlamentare alla nascita dei nuovi esecutivi, ma che in particolare negli ultimi governi è stato spesso utilizzato per fini che hanno sollevato il dibattito fra esponenti politici e accademici, In particolare, si pone il problema della liceità dell’uso di questo strumento in modo così ampio e generalizzato.
E che l’uso sia ampio e generalizzato, lo dicono i numeri segnalati da Open Polis, che, prendendo i dati delle ultime 4 legislature, ci informa che “i voti di fiducia su disegni di legge sono stati in totale 336“. Il più prolifico è stato il periodo compreso tra il 2013 e il 2018 in cui il numero di voti di questo tipo è pari a 108. Senza dimenticare che nella legislatura conclusasi nel 2022 , lle questioni di fiducia poste sono state 106, sfiorando il record.
I vantaggi per l’esecutivo dell’utilizzo di questo strumento sono sostanzialmente quelli che derivano dalla sterilizzazione del dibattito parlamentare, anche nei confronti dei propri sostenitori. Infatti, la questione di fiducia fa decadere, una volta che la proposta di legge abbia avuto il via libera tramite questo “richiamo” all’ordine, ogni emendamento avanzato, anche quelli di esponenti “amici”, ovvero appartenenti alla maggioranza che esprime il governo. Del resto, porre la fiducia su un provvedimento, significa per il governo legare la propria sopravvivenza all’atto in discussione. Un’interpretazione che è di prassi, ma che non è comunque contemplata nella Costituzione, anche se è evidente che un governo che presenti un provvedimento che non riscuote neppure il sostegno dei suoi forse qualche problema di fragilità nella tenuta (della fiducia, appunto) lo presenta
Di fatto dunque, porre la questione di fiducia sui provvedimenti velocizza l’iter ma limita le prerogative del Parlamento.
Tornando ai numeri, l’esecutivo in carica è molto interessante, dal punto di vista delle questioni di fiducia. In valori assoluti, il governo Meloni ha posto, dal suo insediamento, 58 questioni di fiducia, collocandosi così al secondo posto rispetto all’esecutivo guidato da Matteo Renzi, che ha raggiunto quota 68. Diversa è la dimensione temporale però: il governo Meloni è in carica da quasi 2 anni, mentre il governo Renzi ebbe tre anni di vita. Proprio per superare questo scalino ed avere un confronto più omogeneo, Open Polis ha rilevato il numero medio di voti di fiducia al mese, criterio che vede scendere il governo attuale al terzo posto, con 2,64 richieste di fiducia al mese, contro le 2,79 del governo Monti e le 2,68 del governo Draghi. Al di là del fatto che questi ultimi sono due governi d’emergenza (la crisi del 2008 il primo, la crisi sanitaria del covid il secondo) , il governo attuale guadagna la vetta della classifica se si considera il rapporto percentuale tra voti di fiducia e disegni di legge approvati: nel corso del mandato, sono entrate in vigore 129 norme, con un rapporto fra questioni di fiducia e leggi pari al 45% . Seguono il governo Monti al 42,5%, poi quello Conte II a 39,4% e infine Draghi , 37,4%.
Un altro dato interessante segnalato da Open Polis è la fattispecie che chiameremo doppia fiducia, ovvero la proposizione della questione di fiducia sulla proposta di legge in entrambi i rami del Parlamento, Camera e Senato. Una fattispecie utilizzata dai governi italiani in generale, ad esempio il governo Renzi che nei tre anni di vita ne ha usufruito per 22 volte. L’attuale esecutivo è a 21 disegni di legge. Perché il dato è interessante? Per il carattere dello strumento, che svuota, come già detto, il ruolo del Parlamento a fronte della ventilata necessità di accelerare il percorso di approvazione; anche a costo di sacrificare il confronto e il dibattito (e le eventuali dissonanze nella maggioranza). In una parola, la democrazia.