Johann Martin Schleyer, Ludwik Zamenhof, Garry Davis, Erasmo da Rotterdam, Immanuel Kant. Che cosa accomuna un prete, un linguista, un avvocato per i diritti umani, un teologo ed un filosofo? L’utopia del cosmopolitismo.
La cosiddetta “cittadinanza globale”, concetto dalle tinte quasi ossimoriche poiché implica le nozioni di “cittadinanza”, cioè di appartenenza cioè ad uno Stato e di “globalità” in senso sovrastatale, tematizza un conflitto fondamentale della nostra contemporaneità di villaggio-mondo: quello fra “civiltà nazionale” e “umanità” e risolve nell’identificazione con il secondo il problema del nativismo e del nazionalismo (sovranista).
Qual è quindi il profilo del “cittadino globale”? Dichiarandosi “essere umano” prima che “cittadino di…”, il cittadino globale sottolinea la sua appartenenza al genere umano prima che alla sua identità statale, chiusa da confini geografici e giuridici. Quindi per un “cittadino del mondo” il “noi” indica non solo gli abitanti della sua comunità prossima (quartiere, città, nazione), ma di una comunità più ampia (il pianeta). È in questa accezione che troviamo la prima attestazione dell’aggettivo “κοσμοπολίτης”, che Diogene Laerzio nel suo Le vite dei filosofi attribuisce a Diogene di Sinope (II-III secolo A.C.).
In epoca moderna, Erasmo da Rotterdam si dichiara “cittadino del mondo intero, non di una singola città” (“me velle civem esse totius mundi non unius oppidi”). Questa citazione stampata sulla moneta da 25 centesimi (ECU) dei Paesi Bassi prima della nascita dell’Euro evoca uno dei primi fautori di un ideale sovranazionale europeo ricordato (involontariamente) nel nome del programma di scambi europeo ERASMUS+. Nel primo Umanesimo, questa volta non fiammingo ma fiorentino, emerge anche l’ideale cosmopolita di una “respublica litteraria”, cioè di una Repubblica sovranazionale dei letterati, la cui genesi è stata ben delineata dallo storico della letteratura francese Marc Fumaroli ne La République des Lettres (2008).
L’ideale cosmopolita della repubblica dei letterati è anche alla base della goethiana “Weltliteratur” (“letteratura-mondo”): coniata nel 1827 questa utopia si interroga sulla possibilità di una “letteratura-mondo” transnazionale che permetta il dialogo tra i letterati di varie nazioni e lingue.
Il secolo di Goethe porta ai massimi livelli la riflessione sulla cittadinanza globale, la quale solo in questa epoca diventa proposta giuridica. Kant nel scritto Zum ewigen Frieden (Per una pace perpetua) del 1795, propone lo ius cosmopoliticum (“Weltbürgerrecht”) come principio teleologico a cui dovrebbero tendere le nazioni per il perseguimento della pace: cittadinanza globale quindi come condizione necessaria alla pace tra le nazioni.
Nei due secoli successivi sono gli “esperimenti linguistici” di Schleyer e di Zamenhof, coniatori del Volapük e dell’Esperanto, lingue artificiali, “ausiliari internazionali”, che sognano un’unica lingua per comunicare oltre i confini linguistici nazionali senza però annullare la ricchezza post-babelica.
Pensiamo però in modo dialettico. Anche se gli attuali studi di Merry Merryfield, specialista in educazione alla “global citizenship” e docente alla Ohio State University, indicano svariati benefici psico-sociali del pensiero “worldminded” cioè del “pensiero in ottica globale”, quali potrebbero essere i rischi del pensarsi (solo) “cittadini del mondo”?
Senza dubbio intendere “cittadinanza globale” con “cittadinanza di nessuna parte”, riprendendo il titolo del saggio del 2018 di Lorenzo Marsili e Niccolò Milanese (Citizens of Nowhere). Sentirsi cioè apolidi, slegati da qualsiasi comunità, abitanti di una Terra “de-spazializzata”, di una Terra come non-luogo. Dalla globalità, dal “tutti”, si passerebbe al al “nowhere”, al “nessuno” e questo creerebbe spaesamento e alienazione. Portano testimonianza di questa angoscia da “a-patria” i moltissimi “Giobbe” erranti, esiliati o auto-esiliati come Stefan Zweig. Non dimentichiamo che Erasmo, cittadino globale per eccellenza si firmava sempre “Roterodamus” indicando cioè la provenienza.
E se la “global citizenship” invece di essere un’utopia fosse addirittura una distopia? Citiamo ad esempio l’internazionalismo marxista: proponendosi come rimedio al nazionalismo tipicamente Ottocentesco che accompagna l’emergere degli Stati-Nazione nell’Europa e predicando la sparizione dei confini nazionali per una causa di lotta comune, ha rivelato la sua natura catastrofica natura solo nel 1989. Nel blocco orientale la genuina lotta per l’indipendenza nazionale in opposizione all’internazionalismo marxista si è trasformata in alcuni casi in nazionalismo tribalista, xenofobo e sovranista.Dunque quale medietas?
Nell’immagine Erasmo da Rotterdam