Il bello di Sostakovich

 

 

Dmitri_Shostakovich_credit_Deutsche_Fotothek_adjustedLa musica, oserei dire specialmente per i non professionisti come me, cambia impatto ed impressione a seconda dello stato d’animo, del momento in cui la si vive.

E della esibizione del Quartetto Mucha di martedì 9 giugno in Cavallerizza il punto culminante e folgorante è stato quello di Šostakovich.

Certo prima c’è stato Beethoven, il magno, e poi Schubert, sempre perfetto, ma il Quartetto n. 3 in fa minore di Šostakovich ha spazzato via ogni momento precedentemente esistito, ogni frammento musica e ogni compositore già suonato, riprodotto, eseguito.

 

Non sempre la musica moderna fa quest’effetto. Il suo Zeitgeist, così cervellotico e intellettuale, la rende lontana, distante, sempre un pochetto faticosa, anche quando si abbandona a slanci più di pancia e meno di testa rimane, spesso, difficilmente digeribile.

Il quartetto eseguito martedì, vuoi per il pezzo in sé, vuoi per l’esecuzione dei giovani musicisti (definiti molto promettenti dal programma di sala) credo abbia donato, non solo a me a giudicare dall’entusiasmo di tutto il pubblico, un’emozione davvero singolare di perfetta corrispondenza tra sala e musicisti, in cui la sintonia, l’empatia -la sofferenza condivisa con gli esecutori intenti a sciogliersi alla luce delle americane- la vicinanza è stata unica e irripetibile, specialmente considerando le complesse note che venivano, insieme, masticate e digerite.

 

Mi dice Wikipedia che il Quartetto, eseguito per la prima volta nel 1946 e inizialmente censurato dal regime Comunista, vide una ridefinizione dei movimenti (in linea con lo spirito di Partito) al fine di contrastare il giudizio che ne aveva causato la censura. Accusata di essere musica troppo elitaria e formale (un esercizio di stile senza contenuti benefici per il popolo, insomma), si scelse di rinominare i movimenti con fantasiose e istruttive immagini (“Beata ignoranza del futuro cataclisma”, “Le forze della guerra liberate”…).

 

L’aneddoto, se confermato, mette in evidenza una delle caratteristiche più evidenti del Quartetto (evidenziata anche dal bis concesso, sempre da Sostakovich: la Polka): l’ironia, l’umorismo nero, pessimista e fantasmagorico, così connaturato allo spirito russo e alle sue arti.

E qui, appunto, insieme alla tecnica compositiva, sta l’intellettualismo innaturale e stridente contestato anche dai contemporanei del regime.

Poi, la magia, di questo Quartetto ma anche di molte altre composizione, è quella di saper trovare in tutta questa logica uno spiraglio per far cantare l’anima.

Non in un trionfo di slancio come Beethoven, ma in una densa e articolata composizione melodica che, con raffinati scarti di stile, riesce a toccare il cuore, insieme alla testa, dell’uditore.

 

Non accade sempre. Ci vuole la giusta alchimia tra gli esecutori, il compositore e il pubblico. Ma quando accade è una magia.

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