“Grande dimissione”, il fenomeno del post pandemia

La tendenza a lasciare il lavoro alla ricerca di nuovi valori esistenziali

Da due anni e mezzo si parla di un curioso fenomeno, emerso in coincidenza con la pandemia mondiale e che si presta a diverse interpretazioni a seconda delle motivazioni che lo sottendono e alle dinamiche con cui si manifesta. L’hanno chiamato Great Resignation, che tradotto in italiano vuol dire sostanzialmente “grande dimissione”. Parlando di dimissioni si pensa subito al lavoro, e in effetti questa tendenza globale (è presto per chiamarla epocale) ha a che fare soprattutto con il concetto di occupazione generalmente intesa, e quindi con l’esercito dei lavoratori dipendenti e non che a vario titolo o ruolo sono inseriti, inquadrati nel mondo del lavoro contrattualizzato e retribuito.

Dunque, il risvolto economico-lavorativo è quello più trattato, su cui si soffermano gli istituti di ricerca e statistica. Senonché, detto focus coglie solo l’aspetto più eclatante di un discorso più ampio, o meglio: registra un trend ma non ne indaga le cause prime. È vero che impatta direttamente sul sistema (binario), quello più radicato e dominante, accettato e condiviso, ossia, con buona pace di Marx, l’impianto economico-finanziario conosciuto come capitalismo, turbo o tardo poco importa, determinando una controtendenza, probabilmente una moda passeggera. Ma in questo articolo per spunti e suggestioni tutto ciò non ci interessa fino a mezzogiorno… e sono già le tre del pomeriggio.

Partiamo invece da lontano, sottolineando che il significato delle parole “occupazione” e “dimissioni” non si esaurisce nella loro applicazione a un contesto (un rapporto) in cui gli attori sono un’impresa e addetto, bensì, se si cerca nei perimetri dell’animo umano o nell’inconscio collettivo, esso si estende a svariati ambiti extra-lavorativi, avendo appunto a che fare con la vita in senso lato, ovvero con la ricerca di una visione o una dimensione o uno stile da darle, in termini prima ideali e poi più concreti, trasformando la propensione generale alla predica (di qualcosa che si cerca) nella pratica individuale di ciò che si è (“conosci te stesso”, imponeva l’oracolo di Delphi, da cui l’altrettanto celebre “diventa ciò che sei” di Nietzsche), e a questo punto il sismografo collettivo della stampa dovrebbe cedere il testimone (la testimonianza, appunto) al rabdomantico pointillisme di una comunità di singole storie, tra entropia ed utopia.

Non si tratta, cioè (limitandoci al ristretto campo d’indagine della nostra estemporanea ricognizione di taglio psicologico-esistenzialista), di una protesta o di uno sciopero “contro” questa o quell’altra realtà organizzata per ottenere di più, di una contrattazione in termini di denaro o di carriera, ma del decidere di lasciare qualcosa per inseguirne un’altra, per dedicarsi ad altro, per approdare a un altrove. Un andare (via) per restare (vicini a sé, e non in senso geografico, a meno che non ci si riferisca al concetto di “restanza” dell’antropologo Teti).

Si lascia un posto – un posto più o meno fisso, a tempo più o meno pieno, in un luogo più o meno stabile – per inseguire, ad esempio, un’altra idea di tempo, magari un po’ più vuota, oppure una condizione anche più incerta ma, ci si immagina, più “centrata” o stimolante. Per lasciare un impiego a tempo indeterminato ci si impiega poco, volendolo, ma bisogna quantomeno impiegare una bella determinazione a farlo. La parola magica è “riconoscimento”, laddove il riconoscimento economico-sociale, per una parte minoritaria di chi è in età da lavoro, nella scaletta delle priorità viene dopo la conoscenza di sé, la quale viene intesa come una forma di “riconoscenza” nei confronti di sé stessi.

Tra i più giovani, intanto, sta facendo proseliti la Yolo Economy (you only live once), vale a dire una scelta di vita che li porta ad abbandonare il posto fisso allo scopo di avviare un’attività in proprio più flessibile e “responsiva”, mentre per tutte le età domina la voglia di espatriare, il classico “mollo tutto e mi rifaccio una vita”, agognando un buen retiro (con o senza Eldorado) in altri paesi, e con un’idea – vale per i più attrezzati – di life design in testa.

A questo punto, però, un po’ di dati dobbiamo fornirli.Uno studio McKinsey rivela che il 40% dei lavoratori, a livello mondiale, è intenzionato a cambiare lavoro nei prossimi mesi, e nel nostro Paese le dimissioni sono cresciute di oltre un terzo rispetto al 2021, come riporta l’Osservatorio sul precariato dell’Inps. Il 53% dei datori di lavoro ha affermato di avere un turnover volontario maggiore rispetto agli anni precedenti e il 64% si aspetta che il problema continui, o peggiori, nei prossimi sei mesi (…) L’Osservatorio HR del Politecnico di Milano, poi, riporta che nell’ultimo anno il tasso di turnover è aumentato per il 73% delle aziende italiane, mostrando forti difficoltà in termini di capacità di motivare, coinvolgere e trattenere le persone presenti al proprio interno. Il 45% degli occupati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi” (www.digital4.biz)

Non solo. “La ricerca di McKinsey, che ha coinvolto quasi 6mila persone in età lavorativa di Australia, Canada, Singapore, Regno Unito e Stati Uniti – continua l’articolo citato sopra – ha rilevato che il 36% (più di un terzo) di chi si è licenziato non aveva ancora in mano un nuovo lavoro. Ed è questo che caratterizza il nuovo fenomeno, che diversamente dai precedenti cicli di regressione e ripresa sta portando le persone a fare un vero e proprio salto nel buio (…) Il boom delle dimissioni è una realtà anche per l’Italia. Nei primi sei mesi del 2022 le cessazioni sono state 3.322.000, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+36%) per tutte le tipologie contrattuali, e tra queste le dimissioni volontarie hanno un peso rilevante: si parla infatti di oltre 1 milione di casi con un aumento del 31,73% rispetto allo stesso periodo del 2021. Analizzando poi solo i tempi indeterminati, la crescita rispetto al 2021 è del 22%”.

Il fenomeno, per la cronaca, riguarda soprattutto la Generazione Z e i millenials. Tradotto a spanne: dall’annoso problema dell’occupazione… all’occupazione vissuta come un problema, nel senso che quel che per la maggioranza è un’opportunità da cogliere, per una minoranza appare addirittura come un ostacolo da rimuovere. Dallo slogan “lavorare meno (no more jobs), lavorare tutti” (in barba ai workaholic, alla office addiction) al lavorare bene lavorando il giusto, non foss’altro che per ragioni di relax, detox, rehab. Non è un “elogio dell’ozio” di russelliana memoria a uso di lavativi, bohémien e perdigiorno: è solo che, mentre tutti siamo d’accordo sull’importanza del PIL, ci si dimentica spesso e volentieri, a certe latitudini, di un altro fondamentale indicatore, la FIL (Felicità Interna Lorda).

Certo, non siamo così ingenui: c’è chi si dimette da A perché B gli ha offerto più denaro, o perché trova maggiore soddisfazione in termini di mansioni, o perché sa che imparerà di più, o perché non si trova a suo agio con capi o colleghi, o perché lo switch gli garantisce più possibilità di carriera o prestigio mondano, o perché il suo nuovo ufficio è più vicino a casa, o perché avrà più tempo libero per sé o la famiglia, o per preservare una generica salute fisica o mentale, o perché è giovane e può permettersi di provare di qua e di là, o perché si sente sicuro delle proprie capacità e quindi può decidere di fermarsi un attimo sapendo che quando vorrà riprendere troverà comunque un posto, o perché ha un paracadute economico che gli consente di rischiare, o perché tanto, alla peggio, finché non lo si abolirà c’è sempre il reddito di cittadinanza, o perché è semplicemente impazzito e va bene così.

Ma è riduttivo, non esaurisce il discorso e soprattutto non spiega il “percorso” sottotraccia, la molla profonda che scatta di fronte a una “crisi” personale, e crisi significa appunto scegliere, distinguere, passare da qui a lì. Un conto è migliorare la propria posizione lavorativa (per moltissimi è così, si bada al sodo di ciò che si vede, almeno per quel che appare), un altro invece è spostarsi, cambiare situazione esistenziale, scavare sotto per scovare altro.

C’è chi lascia un’azienda ma resta nel settore, oppure chi cambia settore e mansione rimanendo però nel circuito di un “siccome” calcolato, e ci sta. Ma c’è anche chi si dimette e basta, funambolo senza rete, con avventuroso slancio o, più spesso, per intima necessità o terremoto interiore (in questo caso non c’è valutazione razionale che tenga), cambiando le regole del (suo) gioco e ridisegnando i termini d’ingaggio dell’unica vita che ha. Non pro-curarsi piccole scosse di assestamento per restare in equilibrio su ciò che c’è, ma fare spazio a un big bang che “esplodendo”, e facendo emergere il sommerso, possa curare ciò che è mediante quel che sarà. Non un ripiego o un ri-piegamento su sé stessi, ma un re-impiego che sa di impegno (anche temporaneo o fallimentare, ma tant’è) verso sé stessi.

Parentesi. Una società accelerata porta con sé una frenesia che, stressata, può sconfinare nella freniatria, per dirla con un calembour. Gli effetti collaterali della velocità richiedono rimedi lenti e affetti espansivi, meglio ancora se riservati ad animali o piante. Frenare, per non franare. Voltarsi indietro ma guardare avanti per non andare a sbattere. C’è un termine che conosciamo tutti: burnout. Vuol dire “esaurito”. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il burnout è “una sindrome multifattoriale (per alcuni una malattia professionale) derivante da stress cronico associato al contesto lavorativo, che non riesce ad essere gestito come si dovrebbe”. E non riguarda solo gli insegnanti o coloro che svolgono un’attività a stretto contatto con il pubblico. Ma non cercatela sul DSM-5, perché pare che nemmeno sull’ultima edizione-revisione del manuale diagnostico e statistico americano abbia trovato spazio tra i disturbi psichici come entità nosografica specifica, restando comunque dibattuta in campo medico-legale.

Qualche anno fa, per evitare detta sindrome, o per alleviarne i sintomi e curarne gli esiti, ci si affidava a una serie di pratiche contenute in una parola: downshifting. Che vuol dire cambiare passo, rallentare, optare per uno stile di vita minimale. Avere meno, dire meno, fare meno: per questo è parente del decluttering, la filosofia quotidiana del saper liberarsi del superfluo (fare “a” meno), e un po’ ricorda il leggendario Diogene, che non aveva niente se non una botte e una ciotola per l’acqua, e un giorno si liberò anche di quest’ultima perché, diceva, quando aveva sete poteva riuscire a bere raccogliendo l’acqua unendo semplicemente le mani.

Dalla quantità alla qualità delle cose di cui ci si circonda, anche se poi Hegel dirà che quando la quantità è notevole essa è in grado di determinare anche la qualità, o una cosa così (vado ancora a memoria). Come dire: vade retro consumismo! Un “essenzialismo” (cit. Giametta, saggista nicciano) non facile, ma che pare forgi e tempri lo spirito. Segnalo un paio di libri di grande successo, autore un italiano, Simone Perotti, scrittore “nomadista” e velista (spesso in solitaria) che nel 2009 pubblica “Adesso basta. Lasciare il lavoro e cambiare vita” e due anni dopo “Avanti tutta. Manifesto per una rivolta individuale”, entrambi con Chiarelettere. Visto che ci sono, e in alternativa al menarvela con la baita di Heidegger o la torre di Montaigne-Hölderlin-Jung o l’erranza fuggiasca di Nietzsche o l’autoesilio di Wittgenstein in un capanno norvegese o il passaggio al bosco di Jünger e via mistificando e misticheggiando, provo a fornire ulteriori spunti e suggestioni consigliando altre cinque letture interessanti, e cioè: “La vita fuori di sé” di Pietro Del Soldà (Marsilio 2022), “La conquista dell’identità” di Giovanni Jervis (Ed. thedotcompany 2020), “L’arte di scomparire” di Pierre Zaoui (Il Saggiatore 2015), “Immaginare altre vite” di Remo Bodei (Feltrinelli 2013) e il celeberrimo “Walden” di Thoreau (1854).

Facciamo un passo indietro. Great Resignation, abbiamo detto. Facendo sfoggio di altri inglesismi, possiamo segnalare anche un suo cugino meno estremo, il Quiet Quitting (o “abbandono silenzioso”, cioè la tendenza a non fare più del dovuto, ovvero il minimo necessario, per non cadere nell’iper-attività e iper-reperibilità: una sorta di applicazione del work-to-rule, leggiamo su Wikipedia). Ebbene sì: la Great Attraction (l’attrattività del mondo del lavoro normalmente definito e delineato, poco importa se come realizzazione del proprio Sé o come mantenimento materiale di sé stessi) sembra soccombere sotto i colpi del Great Attrition (leggasi logoramento da lavoro, sebbene il più delle volte il lavoro, come abbiamo detto, oltre a logorare chi non ce l’ha, e vabbè, c’entri poco: non è che l’espressione cutanea di un disturbo “ontologico”, un parafulmine su cui si scarica un disagio che viene da lontano e che a che fare con la ricerca del proprio posto nel mondo; non conta se ci si perde, ma se si sa ricominciare).

Ricapitolando. Bolla di sapone mediatica? Sintomo generazionale? Cambio di paradigma evolutivo? Della Great Resignation ultimamente hanno scritto in tanti, specialmente in occasione della pubblicazione di report periodici sullo stato e i numeri dell’impiego, redatti da istituti privati o da società pubbliche: dove va il mercato, come si muove il saldo, chi entra e chi esce, le ricadute sul business etc. Ci si è accorti che, a un certo punto, il bilancio registrava un segno negativo, o meglio, che in così poco tempo, e forse come mai prima d’ora a memoria d’uomo, era cresciuto enormemente il numero di persone in uscita dal macrocosmo lavorativo, in ogni settore e con flussi diversi a seconda del paese o del settore di riferimento.

Un esodo, se non di massa, quantomeno anomalo e significativo, sicuramente visibile, dunque da analizzare. E infatti se ne sono occupati economisti, sociologi, psicologi, antropologi (diremmo persino etologi e futurologi) e via discorrendo e teorizzando. Un trend che fa pensare, in termini di criticità o problematicità, allo Zeitgeist (spirito del tempo), a maggior ragione in un periodo storico complicato, confuso, difficile: una fase di transizione (o meglio: di transazione, di negoziato – sì, anche con l’ozio) che richiede grossi sforzi di decifrazione e traduzione. Il senso comune, che non sempre è buon senso allo stato brado, reciterebbe: non è curioso che ci si dimetta proprio adesso? è un controsenso; di questi tempi, con l’aumento vertiginoso dell’inflazione, del gas e della luce. Un suicidio economico-sociale? (a danno delle proprie tasche?) Certo, uno può contare sul Tfr (nei casi in cui se ne abbia diritto), o su un’eredità in arrivo, che comunque non è esattamente una progettualità a lungo respiro, specie se la pensione è lontana.

Altra suggestione: perché bar e ristoranti fanno così fatica a trovare personale? Solo perché la retribuzione non è competitiva rispetto al RdC? In certi casi sì, ma c’è dell’altro. Per non dire di una tendenza preoccupante, specie in un settore fondamentale e delicato come quello della sanità: perché non si trovano medici disponibili a essere assunti immediatamente e in pianta stabile, in particolar modo per ricoprire ruoli di pronto soccorso (fatte salve, certo, le considerazioni sui turni di notte, i rischi professionali evidenti, le sedi prese d’assalto etc)? Una risposta potrebbe essere: “Un posto di lavoro fa comodo, ovvio: ma sicuri che ne valga sempre la pena?”. Dalla resistenza alla resilienza, fino alla desistenza. Dall’impiego passivo al disimpegno attivo.

Dicevamo, galeotta fu la pandemia. A quanto pare la minaccia da Covid-19 e la paura del contagio in corpi esposti per definizione alla malattia e alla morte (vi risparmio la riflessione sull’essere-per-la-morte, sul pro-getto gettato che siamo e sul nulla che nulleggia e giganteggia), l’isolamento da lockdown e il distanziamento fisico e financo ormonale, l’impossibilità o difficoltà a socializzare e a relazionarsi come prima anche solo per poche settimane se non con gli strumenti della digital communication o digital watching-meeting-matching, ecco… sì, pare abbiano contribuito a suonare la sveglia alle coscienze inquiete o più sensibili, dando la stura a una sorta di consapevolezza dormiente, ovvero agevolando un’attitudine interiore (un accondiscendere al proprio daimon: ad esempio sviluppando un talento fino a quel momento sacrificato, mirando letteralmente all’eudaimonia), insomma a optare per un cambiamento (il change, primariamente per risolvere le proprie disfunzionalità relazionali pregresse, cfr. Watzlawick, e poi a cascata), slatentizzando e sintetizzando un desiderio “identitario” frustrato, oppure accelerando una vocazione nella direzione di una strada poco battuta e per questo distintiva (presente la poesia di Frost?): un “bivio” esistenziale a lungo rimosso, trascurato o rimandato, sospeso tra sogno e realtà.

Morale: le vie del domani sono infinite, e tutte portano da qualche parte; “sentieri interrotti” (cfr. Heidegger, pure lui protagonista di una svolta, Kehre) o addirittura interdetti che siano, l’importante è smettere di patire e… partire, mettersi nei propri panni e rimettersi in viaggio verso l’infanzia perduta; la vera mèta non è una destinazione precisa, ma è il destino precipuo del partire (per parafrasare Ungaretti). In fondo, la cosa più importante da fare per realizzare qualsiasi cosa è iniziare, mettersi in cammino verso il proprio “linguaggio” e paesaggio d’elezione. In questo caso la meta, a conti fatti e pagati, è sempre una “metànoia”, ossia un radicale mutamento del modo di vedere, pensare, sentire.

Per queste ragioni, più che di “grande dimissione” (che per assonanza può dare l’idea di una scelta o persona dimessa, cioè modesta, umile, sottomessa), e fuori dall’applicazione in senso lavorativo di tale tendenza, sarebbe più consono parlare di “grande dismissione”, vale a dire di un affrancamento da tutto ciò che non (ci) serve, o da una “missione” che non rappresenta né il proprio habitat né il proprio miglior abito tailor made, fatto su misura per vestire ciò che ognuno è, sotto l’egida custode del proprio “angelus novus” (Benjamin) o “angelo necessario” (Cacciari) e secondo “il codice della (propria) anima” (Hillman). Privilegiando l’approccio olistico, orientato al concetto di wellbeing. Si fantastica fin troppo sul Grande Reset, mentre si trascurano i benefici che deriverebbero da un Nuovo Mindset.

Concludendo. Dall’epoca delle passioni tristi (Miguel Benasayag) all’era della suscettibilità (Guia Soncini), dal disagio della civiltà (Sigmund Freud) e degli “infelici molti” (Elsa Morante) alla “società del rischio” calcolato (Ulrich Beck) e via infiocchettando, ci stiamo forse avviando verso una nuova frontiera, il post-postmoderno, capace di sostituire il disincantamento (Max Weber) con il reincantamento? Da cui la scoperta di nuovi scenari individuali e la valorizzazione di antiche virtù comunitarie? Non una Grande Rassegnazione, bensì una Giusta Ri-Assegnazione: un ritorno alla propria origine più originale e dunque alla meraviglia, flirtando più con il naturale che con l’artificiale, con la campagna più che con la città? Dall’uomo antiquato (Günther Anders) all’uomo rinato e rigenerato, dalla Tecnica alla Frugalità (new frugality), dalla stanzialità analogica al nomadismo digitale, in cui allo smart working si affianca lo smart walking? Massì, less is more (segnaliamo “Quando meno diventa più” di Paolo Legrenzi, sulle buone pratiche di sottrazione, Raffaello Cortina 2022). Domande aperte per una società che voglia di nuovo aprirsi dopo mesi e mesi di chiusura forzata o anni di orizzonti limitati: aspettative e speranze, laddove “il domandare è la pietà del pensiero”, diceva il “mago” di Messkirch, colui che ha definito il concetto di Gelassenheit, tradotto in “abbandono” (si riferiva forse all’abbandono del posto di lavoro?).

Chiedete e vi sarà donato (il posto mobile nel mondo che cercate), chiedetevi sempre il perché e prima o poi vi sarà tutto chiaro. Siate creativi e godetevi la vostra ricreazione al suono della campanella, coltivando la magia e la malia delle piccole conquiste. Seducetevi, non sedatevi; siate affamati di voi. Beh, che dire: davvero una bella im-presa di coscienza.

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