Il brano “We gotta get out of this place” divenne l’inno delle truppe americane durante la guerra in Vietnam. E nemmeno troppo tempo fa fu accostato a Somalia, Iraq e Afghanistan. Adesso l’Inferno è a Gaza. Da dove non si esce. I gazawi evacuati dalle loro case, che nella maggior parte dei casi non esistono più, sono una tribù allo sbando e affamata. Sballottati da una parte all’altra di una piccola “striscia” di terra. Mahmoud Mushtaha, giovane giornalista freelance palestinese che ha appena lasciato a Gaza la famiglia, scrive: «Mentre mi avvicinavo ai soldati e ai loro carri armati, ho alzato la carta d’identità nella mano destra e una bandiera bianca nella sinistra, pregando di potercela fare. Uno dei soldati ha gridato: “Passano solo cinque persone alla volta. Gli altri devono aspettare e poi avanti altri cinque. Mi capisci?”. Quando è stato il mio turno, il soldato mi ha fissato, ero da solo, senza una famiglia. Ha tirato fuori una sigaretta. Potevo sentire il peso del suo sguardo su di me, un segno silenzioso del potere che aveva sul mio destino. Avrebbe mostrato misericordia o avrebbe scatenato la sua brutalità, come aveva fatto con tanti altri in precedenza?
“Dimmi il tuo nome completo?”, ha chiesto il soldato, che sedeva sul carro armato. Ho detto chi ero. Ha aspettato qualche secondo, poi mi ha ordinato di andare avanti e di non girarmi indietro. È stato il momento più bello: ero vivo. Ho continuato a camminare a piedi per circa un chilometro e mezzo. Lungo la strada ho visto un gruppo di soldati israeliani ridere e mangiare patatine. Una jeep militare si è avvicinata ad alcuni palestinesi che cercavano di passare, poi ha sterzato rapidamente per spaventarli, mostrando chi comanda. Dopo quattro ore di cammino, ho finalmente raggiunto la città di Rafah. Sono stato accolto da una cruda realtà che contrastava nettamente con le immagini che avevo in mente. Contrariamente alle assicurazioni dell’esercito israeliano che ci fosse cibo in abbondanza e sicurezza nel sud, la vita qui era estremamente difficile. Sono rimasto scioccato nel vedere il paesaggio dominato da decine di migliaia di tende che ospitano gli sfollati, si estendevano fino all’orizzonte. Ogni centimetro era sovraffollato, senza tregua o spazio libero da trovare. Le scene di Rafah riecheggiano i dolorosi ricordi della Nakba del 1948, una testimonianza vivente delle storie tramandate da mio nonno. Il peso della storia gravava su di me, un promemoria del fatto che noi, come palestinesi, siamo stati costretti a soffrire nel corso delle generazioni. Vivere a Rafah significava essere immersi nel costante trambusto di una città densamente popolata, che ora ospita oltre 1,5 milioni di persone, tutte alle prese con la dura realtà della nostra esistenza. Ogni anima impegnata in una silenziosa competizione per la sopravvivenza, tra gli angusti confini di rifugi di fortuna, dove avere tre metri di spazio intorno alla propria tenda era un lusso concesso a pochissimi. Mi sono accampato ai margini del confine egiziano. Ogni mattina mentre guardavo il filo spinato che circondava l’area ricordavo la mia fuga. Sembrava di svegliarsi in una grande prigione. Le notti erano molto fredde e la pioggia non faceva che esacerbare le terribili condizioni. Ho lottato per evitare che l’acqua piovana penetrasse nella mia fragile tenda, mentre il sole cocente rendeva insopportabile il giorno. Non avendo mezzi per procurarmi altri vestiti e senza nessun altro posto dove cercare pace, la mia situazione sembrava sempre più terribile. Anche i rifugi allestiti erano sovraffollati, non avevo altra scelta che condividere una piccola tenda con un amico».
Ad oggi, sono circa 200 mila i civili palestinesi che hanno lasciato Rafah da quando l’IDF si è ritirata da Khan Younis lo scorso 7 aprile. Oltre un milione di persone è ancora accampato in questo angolo meridionale di Palestina, adiacente all’Egitto. In attesa che il conflitto, che non se n’è mai andato, arrivi anche lì.
Martedì 30 aprile il segretario di Stato statunitense Antony Blinken – in nome e per conto di Biden – atterrerà in Israele, per discutere dei piani militari della nuova invasione di Gaza (che non vorrebbe) e della bozza di accordo con Hamas (che chiede con insistenza di stipulare). Gli obiettivi dichiarati sono tregua e liberazione degli ostaggi catturati il 7 ottobre. Comunque vada Blinken, e con lui Biden, si trovano nel bel mezzo di un cul-de-sac (da cui vorrebbero uscire in fretta). Poca, troppo poca, la speranza di una soluzione all’orizzonte. Benjamin Netanyahu spiegherà all’emissario della Casa Bianca che non si può fermare finchè non raggiungerà la “vittoria completa”, distruggendo Hamas.
Ma in pratica, Bibi avrà parecchie difficoltà a fare qualcosa senza gli americani alle spalle. In questo contesto non può, anche se a tratti vorrebbe, fare del tutto a meno dell’alleato che lo finanzia e protegge. Allora, dovrà ponderare bene le decisioni, politiche e militari. La trattativa diplomatica di Qatar ed Egitto, sempre più demotivata difronte all’atteggiamento di entrambi i contendenti, è appesa ad un filo e al limite massimo di sopportazione. Sfibrata e delusa. Il Cairo rischia di trovarsi con il cerino acceso in mano, milioni di palestinesi che spingono per entrare, pur di andarsene da Gaza.
Per Netanyahu invece la vendetta è già scritta: prima l’operazione su Rafah. Poi toccherà al Libano, con la punizione a Hezbollah. E infine per “il falco” della destra forse potrebbe essere il tempo di attaccare l’Iran, e chiudere il cerchio delle promesse, giusto in tempo per le elezioni americane.
Alfredo De Girolamo Enrico Catassi
In foto Antony Blinken