Le gallerie private di qualità a Firenze, sono poco numerose ma piuttosto attive, e alcune hanno scelto di fare una programmazione che si può considerare coraggiosa, cioè non allineata con i dettami del mercato. Prendiamone due, la Galleria Santo Ficara, in via Ghibellina 164r, e la Biagiotti Arte contemporanea, in via delle Belle Donne 39r. Da Ficara fino a tutto maggio espone Ennio Ludovico Chiggio, classe 1938, che fin dagli anni sessanta, ha affiancato la ricerca dell’Arte Programmata e del Gruppo Enne. Chi sintetizza efficacemente le tematiche che univano gli artisti programmati, è un altro artista-teorico, Getulio Alviani, sempre molto rigoroso e raffinato. “…immediatamente ci siamo riconosciuti come soggetti di uno stesso modo di sentire, orientati verso il design e l’architettura, la sociologia o la psicologia piuttosto che alle individualità delle poetiche artistiche (…) lavoravamo con impegno su problemi di percezione, sulle immagini virtuali, sul dinamismo intrinseco dell’opera, sull’intervento del fruitore, sulla luce e sullo spazio, sulla serialità, sui materiali tecnologici, utilizzando basi matematiche e forme esatte”. Della vasta produzione di Chiggio alla galleria Ficara si è scelto di proporre venti opere in bianco e rosso, lavori geometrici che l’artista definisce “alternanze dinamiche”, elaborate a partire dagli anni settanta, con il caratteristico approccio scientifico. I titoli sono di per se stessi descrittivi dei concetti e delle forme: Cuboedro, Barra intersecata su fori, B/R Grande traslazione. Chiggio intende queste opere come “macchine gioiose”, articolate, spiega lui stesso, su un indicatore di attenzione, un segnale di presenza o di avvertimento, diseganti con l’uso di due soli colori, che ci ricordano i simboli di all’erta o di interruzione del flusso automobilistico cittadino. Nella conversazione in catalogo tra Chiggio e Alviani, quest’ultimo fa una dichiarazione che allude anche alla filosofia del gallerista, uno che si è tirato fuori dal coro: “Credo che il nostro lavoro non dovrà mai essere condizionato dalle mode o dal mercato, ma avere una sua vita autonoma. Lunga vita allo sguardo che approfondisce attraverso la visione, il sapere!”.
Già buttando un’occhiata attraverso la vetrina della Galleria Biagiotti, si è colpiti dalla vivace gamma di colori e dalle grandi dimensioni degli insoliti dipinti di Sandra Tomboloni. Nata vicino a Firenze nel 1961, Tomboloni è un’artista autodidatta che è cresciuta sul proprio istinto, e che per anni si è affidata all’abilità delle proprie mani per modellare la plastilina, materiale d’elezione, grazie al quale si è mantenuta concettualmente in contatto con il suo fantastico lato infantile, al contempo labile e fragile. In una fase successiva, ha cominciato a ricoprire col pongo gli oggetti che trovava e che erano significativi per rappresentare un ambiente domestico, l’interno di una casa.
Oggi sono ancora le case, stavolta dipinte con tecnica materica, a “trasmigrare” sulle sue tele, così assemblando densi villaggi verticali, abitati soltanto da qualche gatto nero. Tomboloni non ha perso la passione per la materia da plasmare, ma è passata dalla molle plastilina alla creta che diventa solida ceramica in forma di vaso-torre con bassorievi o di oblunga figurina umana, simile a quelle marionette mosse dall’interno, che stanno sulla mano come un guanto. Interessante anche sotto l’aspetto umano questa artista che ricorda certi rappresentanti dell’arte primitiva, brut e naif, e che è stata definita da una collezionista “piccola e simile a un folletto”. E fino a questa “conversione solida” , è stata un’artista difficile per il mercato, che tempi ormai lontani, quando l’arte informale prima e quella poverista poi cominciarono ad imporsi, accettava anche le composizioni lacerate e combuste di un Burri, oppure le foglie d’insalata di un Anselmo. Ecco perché la funzione di incoraggiamento e di consiglio dovrebbe essere la componente che distingue il gallerista illuminato dal mero mercante d’arte.
Paola Bortolotti