Lunedì 6 giugno al quarto appuntamento con il Quartetto Kelemen abbiamo avuto delle conferme. Prima di tutto che sono bravi. E secondo che la loro cifra stilistica è il sentimento che, piaccia o non piaccia, infondono in ogni esecuzione. E non si sta parlando del sentimento che, genericamente, ogni musicista infonde anche nella esecuzione più algida, quanto del preciso intento di dare ai brani eseguiti un’impronta romantica, un trasporto e un’enfasi che non necessariamente sono iscritti nello spartito e nelle volontà di chi l’ha composto. A qualcuno questo spirito d’iniziativa non piace e si contesta che tutta questa passione non è necessariamente adatta a tutte le esecuzioni. Ed è verissimo.
Io però nella perenne ricerca di momenti topici, non disdegno di ritrovarmi travolta dal flusso di una musica passionale e commovente, che per il tempo del concerto mi faccia sentire con intensità che sto vivendo. Sono molte responsabilità per un concerto, me ne rendo conto. Però non credo di essere così sola nelle mie alte aspettative e come me credo che in molti abbiano apprezzato l’onda sonora del Quartetto.
La trama musicale dei Kelemen si è subito espressa su Bach (suonato come prima proposta di programma al posto dell’Arcadiana di Adès, cambiamento dell’ultima ora). La matematica corrispondenza della sua musica si presta sia ad una interpretazione filologica, una lettura misurata ed esatta della partitura, sia ad una resa romantica ed entusiastica, che esalta la meticolosità dello spartito per contrasto. Questa seconda via è quella intrapresa dal quartetto lunedì sera, questo lo slancio appassionato e la chiave di lettura del concerto intero, che proprio col più cerebrale dei musicisti ha voluto dare sfoggio di iper-sentimentalismo. Non a caso il concerto è stato poi un crescendo, con Mendelsshon e Schumann (sublime).
Del resto se per il secondo anno consecutivo tutto il Festival è dedicato alla scoperta dell’Ottocento un motivo ci sarà.