Dove va la politica: dal decisionista Craxi al rottamatore Renzi

Firenze – Un incontro col politologo fiorentinoMassimo Carrai è l’occasione per cercare di capire quali direzioni sta prendendo la politica italiana attuale. Un periodo emblematico, quello che stiamo vivendo, secondo Carrai, che offre materia preziosa per studiare un fenomeno che si potrebbe qualificare “endemico” delle democrazie occidentali ma in particolare del nostro Paese: il ritorno periodico a forme di democrazia “delegata” che puntano sull’efficienza e la velocità decisionale sacrificando la partecipazione, spesso vissuta come “intralcio” e perdita di tempo”. E se da un lato questo va a incidere in modo significativo sulla pregnanza degli organi di controllo, dall’altro è spesso guidato da una figura emblematica che, con tutta l’ambiguità del termine, possiamo definire il “leader”.

La domanda, direbbe qualcuno, scatta spontanea: il fenomeno Renzi è ascrivibile a questa categoria?

“Intanto diciamo subito che Matteo Renzi è la figura che in questo momento, presso una buona parte dei nostri concittadini, rappresenta tutto ciò che è inscritto nella definizione “Politica” e anche “Stato”. Vale a dire, è l’uomo simbolo di tutto ciò che è attività governativa e statuale nell’immaginario collettivo. Ciò significa che sì, Renzi rappresenta in qualche modo il leader di questa stagione. Ma le radici di questo fenomeno politico vengono da lontano”.

Dunque, se ho capito bene, il Renzi spuntato come un fungo dopo la pioggia dell’inefficienza precedente è una semplice favola?

“Il fenomeno del cambiamento del nostro sistema politico-istituzionale è ben precedente e le forme attuali non sono che il risultato di un cammino i cui primi passi si possono già intravedere dalla fine degli anni ’70. La tendenza è la seguente: il sistema assestato tende a diminuire la possibilità che domande “eversive” rispetto a se stesso trovino rappresentanza. Il sistema vuole solo consensi. Questo principio, che, sia chiaro, è generale a tutti i sistemi “stabiliti” (la tendenza all’autoconservazione, in definitiva) prende vari aspetti, fra cui il più evidente è la leadership “forte””.

La considerazione che discende è senz’altro che, pur presentandosi come “rivoluzionaria” (o rottamatrice, come si preferisce) la figura del leader non è spesso che l’ultimo tentativo di un sistema ormai in crisi di arginare la sua dissoluzione? In altre parole, si tratta di una conseguenza di natura conservatrice …

“Forse. In realtà, il dato significativo è che questo processo  in Italia ha già avuto un illustre rappresentante, diciamo un caposcuola, che ha segnato non solo una svolta nel rapporto fra il leader e gli attori principali del sistema democratico, ma ha anche già cambiato in modo irreversibile un partito storico e ben radicato nella tradizione della sinistra italiana in qualcosa di profondamente diverso rispetto alle origini: sto parlando di Bettino Craxi e del Psi”.

Quali sono gli elementi che secondo lei sono “precorritori” nella figura di Craxi?

“Intanto, la terminologia che nasce in quel periodo. Non dimentichiamo ad esempio che il termine “decisionista” con cui spesso fu definito l’ex-presidente del Consiglio fu coniato da lui, andando a calzare perfettamente il personaggio. “Decisionista” vale a dire colui che prende le decisioni, le prende in modo rapido ed efficiente. Comincia ad affermarsi proprio in questo momento (o meglio, in questo momento assume forza trainante) un concetto che farà molta strada nel corso degli anni e che diverrà un leit motiv per il successore immediato di Craxi, Silvio Berlusconi: si passa da “l’esecutivo debole”” di Maranini alla necessità dell’esecutivo forte (decisionista”) di Craxi e poi al mito del “ghe pensi mi” di Berlusconi. Infine, capitolo solo per il momento conclusivo, alla mistica del “fare” di Renzi”. 

Pare di capire dunque che, nella sua ricostruzione,  Craxi sia stato colui che apre le porte … 

“Oltre alla terminologia, che tuttavia fa parte della comunicazione politica e dunque è molto significativa, Bettino Craxi comincia ad utilizzare strumenti che, all’epoca, appaiono innovativi. Uno di questi è la “personalizzazione” della direzione del partito. Tutto deve essere in qualche modo visto, gestito, o semplicemente fare riferimento al “capo”. Si prendono le posizioni o con lui o contro di lui. La vita interna del partito non soffre più confronti. Craxi con vari colpi di mano ma a volte solo per arrendevolezza delle parti, sedotte dalla sua capacità di potere, riesce a spazzare via le opposizioni interne. In una opera di allargamento del consenso personale, suo proprio, allarga i rapporti al di là del partito, agganciandosi anche a categorie economiche fino ad allora estranee alla tradizione socialista della sinistra. Il tutto, in nome di legami personali che poi però diventano politici, ed infine economici tout court, tutti all’insegna della ricerca del consenso. Consenso che però diventa personale, fondato sull’uomo e sulla fiducia che egli solleva, e solo attraverso Craxi si riversa sul partito. O meglio, nel caso del Psi, sul governo”. 

Ma cosa spinge in questa direzione Craxi?

“Non bisogna dimenticare che all’epoca il Paese ha un grosso problema di governabilità. Si esce dalla lotta armata, gli assetti economici cominciano a cambiare, ci sono i primi segnali che nel Mediterraneo, da lì a poco, posizioni che erano date per scontate cominciano a saltare. Siamo davanti a una grossa mutazione sociale, ancora annebbiata da un’economia che continua a tirare, ma che comincia già a preoccupare per la sua tenuta a lungo termine. Il problema più grosso dunque, quello della governabilità del Paese, viene affrontato con una strategia che potremmo chiamare di “abbassamento della conflittualità sociale”, in cui la presenza del leader diventa chiave di volta. Il mezzo per abbassare la conflittualità sociale, che significa abbassare la soglia di radicalità delle domande rivolte al Parlamento, sono i partiti, che cominciano, negli anni ’80, a operare una mediazione, circa le richieste della società civile, di “livellamento delle domande”. E’ il momento in cui si comincia a parlare di consociativismo, che nella sua sostanza rappresenta la condivisione di interessi che diventano comuni ad un’intera classe politica, che in questo modo difende il sistema (di cui è parte apicale) dalla radicalità delle richieste che erano emerse, con grande sgomento del ceto politico, solo qualche anno prima”. 

Il ruolo del leader, in tutto questo?

“Il leader, la personalità al governo, diventa la rotella principale dell’ingranaggio governabilità: sceglie i suoi ministri, o lo staff, o i suoi fedeli in base a regole che niente hanno a che fare con competenze, curriculum di partito o altro: interessa la fedeltà al capo, la dipendenza dalle sue sorti, gli interessi comuni, quelli che diverranno comuni. Certo, Craxi si mise intorno uno staff che aveva competenze provate e che si misurò con vicende terribili, reggendo tutto sommato alla prova. Penso a Martelli ministro della giustizia, a Spini, ad Amato. Tuttavia, non fu solo un segno del destino, che, travolta la Prima Repubblica, ne emerse un personaggio che era stato molto amico e presente nella cerchia craxiana, vale a dire Silvio Berlusconi. La strada era stata in qualche modo preparata”. 

E la forma partito?

“La personalizzazione della direzione del partito, l’importanza che via via si fa assoluta della leadership (“manca il leader” dicono in tanti quando vogliono significare la presunta o meno inconsistenza della sinistra interna o esterna al Pd) travalica sul partito modificandolo. Cambiano le strutture essenziali: la selezione dei dirigenti, ad esempio, che come già accennato, viene fatta in base a criteri che non sono più quelli tradizionali (fra tutti, la formazione politica interna la partito) ma dipendono da elementi sempre più personali, da cui non può prescindere la fedeltà al capo. Ma oltre a questo, si perfeziona anche la partecipazione degli interessi: sono le categorie economiche, i gruppi di interesse, le varie lobbies (non nel senso americano del termine, elencate e registrate, bensì nel senso tutto italiano di gruppi di pressione più o meno scoperti) a dare i propri uomini al leader. Non uomini qualsiasi: amici, parenti, conoscenti di amici o parenti sono ammessi nello staff, nel cerchio o giglio magico, quasi mai “burocrati” di partito ma molto spesso imprenditori, rappresentanti di cerchie d’affari, portatori di interessi non tradizionalmente di sinistra. Un’altra conseguenza? La forma partito radicata sul territorio non serve più, viene bypassata, anche perché case del popolo, circoli, ecc. sono da sempre i punti d’unione fra la base del partito e la partecipazione. Ma nella nuova organizzazione del nuovo partito la priorità è data al consenso”.

In che modo?

“Se si bypassa un sistema di valori, che è un po’ quello che è successo, senza volere dare questa affermazione nessun’altra  connotazione che non sia di studio, un altro sistema, o almeno un surrogato va dato per riempire un vuoto che tende a diventare ingovernabile. Per quanto riguarda il Pd, si è costruito un rito-mito che non solo riempie il vuoto di cui si parlava, ma è anche estremamente funzionale alla ricerca e assorbimento di consenso. Una forma straordinaria che si chiama “Primarie”. Un momento, non primarie all’americana, ma Primarie assolute, che vuol dire alla latina, senza impedimenti: aperte a tutti. Il che significa, con quell'”aperte a tutti”, che il consenso che si vuole ottenere  è legato alla persona senza sbarramenti di appartenenze e dunque il meccanismo “Primarie” si trasforma inevitabilmente in plebiscito”.

Un sistema sempre più raffinato, insomma. 

“Certo. Un sistema che, secondo la mia analisi, si sta stabilizzando attraverso una serie di passaggi che sono, in un certo senso, l’onda lunga dell’inizio craxiano. La spinta verso la personalizzazione del partito e l’importanza sempre più assoluta (“slegata”) della leadership è stata infatti spinta avanti con una serie di decisioni tutte nello stesso senso: la legge elettorale maggioritaria, ad esempio, la stessa legge ad elezione diretta dei sindaci. Le primarie aperte sono solo uno, l’ultimo e il più funzionale forse all’evoluzione che abbiamo cercato di descrivere, strumento di un sistema che aveva messo governabilità e abbassamento della radicalità avanzata dal corpo sociale  fra le sue priorità”.

Ma in che direzione si sta andando?

“A questo punto, possiamo solo registrare alcuni dati. Intanto, che l’assetto del partito, del Pd in specie, appare sempre più come una struttura a piani stratificati, incapaci di comunicare fra loro. Un partito dove le domande del suo stesso elettorato, perlomeno di quello orientato più a sinistra, vengono depurate dalla loro radicalità e non riescono più a raggiungere un adeguato livello di rappresentanza. Alla guida del tutto un segretario / capo del governo che mira a farsi rappresentante d’interessi che saltano ben “oltre” le appartenenze. Aiutato, in questo, da un meccanismo di selezione del personale politico che garantisce l’accesso alla cloche di comando passando attraverso un “groviglio armonioso” d’interessi e poteri che azzera curriculum e competenze e che rischia di azzerare il senso stesso dell’esser di sinistra”.

Un meccanismo che, aggiungiamo noi, sembrerebbe agire in modo speculare (e lo si vede anche dallo spingere sul pedale delle appartenenze nel frammentato universo della destra, come in quello della sinistra-sinistra) nell’area opposta al Pd; o meglio, in quello spazio che fino a qualche tempo fa rappresentava, almeno sulla carta, l’alternativa politica al maggior partito del centrosinistra. 

Foto: La Torre Rossa – De Chirico

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