Una nuova relazione di Amnesty International getta un’ombra inquietante sull’Europa. Si tratta del rapporto che l’associazione ha reso pubblico in questi giorni ,dal titolo “Poco tutelato e troppo ostacolato. Lo stato del diritto di protesta in 21 paesi in Europa”, che fa parte della campagna globale dell’organizzazione “Proteggi la protesta” . La campagna ha lo scopo di garantire “che gli stati rispettino, proteggano e realizzino il diritto delle persone di organizzare e partecipare alle proteste in modo sicuro, con un’adeguata protezione e senza discriminazioni, libere da violenza statale, oppressione o sorveglianza”. La ricerca è stata svolta tra dicembre 2022 e settembre 2023 con l’intenzione “di fornire un’istantanea di leggi, politiche e pratiche pertinenti in vigore principalmente nel periodo tra il 2020 e il 2022, nonché esempi di casi illustrativi delle conseguenze di tali leggi”.
Tuttavia, nonostante la retorica istituzionale che spesso ammanta il diritto alla protesta pacifica delle persone, la ricerca di Amnesty getta una luce ben poco rassicurante sul Vecchio Continente. Gli Stati presi in considerazione sono 21, 21 paesi europei: Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Serbia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Ungheria, Regno Unito e Turchia. La ricerca si è svolta sulle normative giuridiche e sulle politiche connesse che
regolano il diritto di protesta pacifica in questi Paesi.
Il presupposto giuridico da cui si parte ha le sue basi nel diritto internazionale. Infatti gli Stati sono obbligati, grazie ai trattati internazionali che hanno sottoscritto, ” a rispettare, proteggere e realizzare i diritti umani alla non discriminazione, alla libertà di riunione pacifica, di espressione e di associazione, nonché i diritti alla privacy e all’integrità fisica, che comprendono il diritto alla sicurezza e alla libertà dalla violenza. Questi diritti sono essenziali per consentire alle persone di protestare in modo sicuro”. come si legge nel Rapporto. In realtà, come spiega Amnesty basandosi sui risultati emersi dalla ricerca, questo diritto fondamentale alla protesta sta subendo una serie di limitazioni proprio nell’area del mondo in cui è nato, grazie a “l’approvazione di leggi repressive, l’imposizione di obblighi procedurali onerosi o di restrizioni arbitrarie o discriminatorie, la gestione razzista delle piazze, l’uso non necessario o eccessivo della forza contro chi manifesta pacificamente, gli interventi arbitrari come gli arresti, le persecuzioni o le detenzioni di manifestanti, nonché l’uso crescente di tecnologie invasive di sorveglianza”.Il rischio è quello di intimorire le persone per quanto riguarda il loro diritto alla manifestazione pacifica del pensiero, in particolare le minoranze razziali, discriminate e sottoposte a pregiudizio.
Fra i punti chiave presi in esame da Amnesty : il diritto di riunione pacifica, il diritto di assemblee spontanee, gli oneri e i requisiti prescritti per gli organizzatori, le restrizioni generalizzate, le modalità di gestione delle proteste, le responsabilità per chi mette in atto violazioni dei diritti umani, la risposta degli stati nei confronti degli atti di disobbedienza civile, il trattamento dei minori. Infine, la ricerca esamina le modalità con cui gli Stati sorvegliano, monitorano, raccolgono, e archiviano i dati dei manifestanti.
Per quanto riguarda il primo punto, conviene capire innanzitutto cosa si intende quando si parla di riunione pacifica. Il diritto di riunione pacifica contempla qualsiasi forma di riunione, “pacifica”. Ma gli standard internazionali vanno ancora più in là: un’assemblea sarà considerata pacifica anche quando si verifichino al suo interno episodi di violenza sporadica, o di comportamenti illegali messi in atto da alcuni individui, ovvero quando una minoranza compie atti di violenza. Anzi, in questo caso, le autorità dovrebbero garantire a coloro che manifestano pacificamente la possibilità di continuare a esercitare il proprio diritto, senza che l’intero raduno venga limitato o disperso, come si legge nel rapporto.
Dall’analisi di Amnesty International sui 21 Paesi europei presi in esame, e premesso che tutti hanno ratificato i principali strumenti per i diritti umani che tutelano il diritto di riunione pacifica. emergono differenze in termini di capacità delle persone di esercitare il diritto preso in esame. Da un lato, è sicuramente una conseguenza delle diverse legislazioni , dall’altro, della mancata o parziale applicazione da parte dei Paesi delle disposizioni internazionali e regionali che proteggono il diritto di riunione pacifica nel diritto interno. Su quest’ultimo punto, si passa dai Paesi che mantengono una legislazione sulle assemblee datata, non riattualizzata con l’adeguamento agli standard internazionali sui diritti umani,, come in Portogallo, mentre in altri, e nello specifico Amnesty cita Belgio, Francia, Italia, Germania, Grecia, Spagna, Regno Unito (mentre in Lussemburgo si sta valutando la proposta) leggi recenti hanno introdotto norme che hanno reso lo scenario “significativamente” più restrittivo all’esercizio del diritto .
Anche le definizioni, le parole, dunque il linguaggio utilizzato dai funzionari statali, secondo il Rapporto, finisce per stigmatizzare in senso negativo le proteste pacifiche e chi vi partecipa. Si tratta di un linguaggio, viene spiegato nella ricerca, comune nei 21 Paesi esaminati. Per fare un esempio concreto, il linguaggio con cui vengono identificati i partecipanti alle riunioni di protesta contempla termini di per sé negativi e stigmatizzanti come “terroristi”, “criminali”, “agenti stranieri”, “anarchici” ed “estremisti”, per sottolineare i più utilizzati. Una retorica stigmatizzante che può venire utilizzata come giustificazione per l’introduzione di ulteriori restrizioni illegali al diritto di riunione pacifica e che possono rappresentare anche un ostacolo alla partecipazione stessa, il che significa una lesione al diritto di riunione pacifica.
Fra i punti esaminati, la codificazione, presente i tutti i 21 Paesi presi in esame, del principio di “parità di trattamento e della non discriminazione”, presente nelle legislazioni nazionali a vari livelli. Sulla cui applicazione concreta e di conseguenza tutela, è emersa una generale carenza, sia per quanto riguarda le norme internazionali che nazionali. Fra le criticità segnalate dal rapporto, ” la frammentarietà della legislazione, l’assenza di protezione per alcuni motivi (ad esempio, l’orientamento sessuale e l’identità di genere) e la mancanza di disposizioni di protezione complete”.
All’analisi concreta, gli estensori della ricerca lamentano che In alcuni paesi sotto la lente, balzi all’evidenza un forte contrasto fra disposizioni legali anti-discriminazione e trattamento che individui o gruppi subiscono nella pratica. Si tratta perlopiù di persone appartenenti a gruppi discriminati in base alla provenienza razziale (nella ricerca si usa il termine “razzializzati”, neri, arabi, immigrati in genere), fenomeno che i ricercatori riscontrano ad esempio in Austria, Belgio, Francia, Germania, Portogallo, Spagna, Regno Unito, mentre per quanto riguarda le donne emergono in particolare in Grecia, Polonia, Turchia, Regno Unito, persone lgbtqia+ Polonia, Serbia, Turchia, Ungheria, minori Regno Unito, Polonia, Francia, persone con disabilità Francia, Regno Unito, lavoratori e lavoratrici del sesso Francia, Irlanda, Italia, persone che protestano a sostegno dei diritti del popolo palestinese Austria, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Italia, Slovenia, Svizzera, Regno Unito, manifestanti per la giustizia climatica Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Serbia, Slovenia, Spagna, Svizzera, Svezia, Regno Unito. Il “trattamento” particolare cui vengono sottoposti questi gruppi di persone rileva sia in relazione al diritto di riunione pacifica che ad altri diritti e libertà.
Altro punto esaminato dalla ricerca, i requisiti preventivi che le autorità statali richiedono abitualmente a chi organizza assemblee pubbliche. In questo caso, si fa spesso confusione fra “notifica” e “autorizzazione”. Nel caso, comune, di requisito di notifica, l’atto consiste nel dare semplice informazione alle autorità dell’ intenzione di organizzare una riunione da parte degli organizzatori. L’autorizzazione invece si configura come richiesta alle autorità di potere organizzare e a volte, pubblicizzare, una riunione. Va da sé che la distinzione è significativa, in particolare rispetto al diritto di protesta pacifica dei cittadini. Ma ciò che risulta chiaro sulla carta nella pratica spesso si confonde. Inoltre, è evidente che qualsiasi requisito procedurale tende a diminuire o limitare il diritto di riunione pacifica e deve essere giustificato dentro un quadro di riferimento di diritti umani, come si specifica nella ricerca di Amnesty.
Sta di fatto che emerge che “i regimi di notifica in vigore nei paesi esaminati sono generalmente obbligatori e gli organizzatori e organizzatrici (e talvolta chi partecipa) rischia sanzioni amministrative e/o penali in caso di inosservanza”. La soluzione ci sarebbe, ovvero il ricorso al sistema della notifica volontaria per la maggior parte delle forme di riunione, in modo da riservare l’obbligo di notifica preventiva solo a categorie ristrette di assemblee in cui la notifica preventiva è essenziale per aiutare la protezione e la facilitazione di un’assemblea o i diritti di coloro che ne sono interessati”. Ciò sottrarrebbe le riunioni pacifiche dal rischio che i regimi di notifica vengano utilizzati “per controllare le proteste”.
Ma ci sono anche altre conseguenze. Le più impattanti riguardano la mancata notifica, che viene utilizzata spesso come motivo di dispersione dell’assemblea o di arresto dei partecipanti, mentre la tutela del diritto dei cittadini di riunione pacifica si applica ” a tutte le assemblee pacifiche (non solo a quelle “legittime”). Il pieno godimento del diritto
di riunione pacifica non è compatibile né con i regimi di autorizzazione, né con i regimi di notifica che operano come un requisito di autorizzazione de-facto”. Solo in Irlanda la notifica è volontaria per tutte le forme di assemblea.
Il preavviso di riunione inoltre soggiace in diversi paesi anche a limiti temporali entro cui deve essere presentato (dalle 24 ore della Finlandia e di alcuni comuni dei Paesi Bassi, ai 28 giorni per le processioni pubbliche di Regno Unito/Irlanda del Nord e Scozia, ai 30 giorni per l’autorizzazione preventiva della Svizzera/Cantone di Ginevra), mentre in alcuni paesi, come in Turchia, si richiedono per le assemblee la nomina di un comitato composto da almeno sette persone di età superiore ai 18 anni e, tra le altre cose, una copia del casellario giudiziario degli organizzatori e delle organizzatrici.
In Italia, oltre ai dati degli organizzatori e delle organizzatrici, è richiesta l’identità delle persone designate a parlare alle assemblee. In Ungheria, gli organizzatori e le organizzatrici devono attendere 48 ore dalla presentazione della notifica prima di poter pubblicizzare l’assemblea, e designare una sorta di servizio d’ordine proprio per mettere in sicurezza l’iniziativa. Disposizioni simili si riscontrano in altri Paesi, rendendo al notifica sempre più simile a un’autorizzazione che può essere negata, a scapito del diritto di riunione pacifica.
Altre criticità riguardano in minima parte l’osservanza della gratuità del processo di informazione alle autorità in materia di diritti umani previsti dagli obblighi internazionali e la presenza di sanzioni, amministrative e a volte penali, per la mancata notifica/richiesta di autorizzazione o per il mancato rispetto dei requisiti della richiesta, o per la partecipazione a iniziative non notificate/autorizzate. Se per quanto riguarda il primo punto l’onerosità economica dei procedimenti sono rari (tassa di 30 euro in Svezia per richiedere l’autorizzazione, tassa trai 200 e i 500 franchi svizzeri nel Cantone di Ginevra per gli organizzatori qualora la richiesta venga presentata con meno di 30 giorni di anticipo), le sanzioni sono piuttosto diffuse.
Fra i Paesi che applicano sanzioni ammnistrative (ricordiamo, per mancata notifica, per mancanza di requisiti alla notifica, alle persone che partecipano a riunione non autorizzata) ci sono : Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Germania , se viene comunicata un’informazione falsa, Lussemburgo, Slovenia, se non sono comunicate tutte le informazioni richieste, Spagna. Sanzioni penali invece in Francia, Germania, Ungheria, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Serbia, Svezia, Slovenia, Svizzera, Turchia e Regno Unito.
Un altro tema sono le assemblee spontanee, ovvero quelle effettuate in risposta o reazione a eventi in corso, per le quali non è possibile fornire un preavviso nei tempi e nelle procedure abituali. Premesso che, secondo il quadro internazionale dei diritti umani, dovrebbero essere una forma di partecipazione prevista e quindi agevolate e protette tanto quanto le iniziative notificate, solo sette paesi, ci informa Amnesty, hanno norme esplicite di tutela per quest’ultima: si tratta di Repubblica Ceca, Finlandia, Grecia, Ungheria, Polonia, Serbia, Slovenia.
In altri Paesi vige una tutela implicita che si basa sulla dottrina o sulla giurisprudenza prevalente, come in Austria, Belgio, Germania, Irlanda, Italia, Svezia e Regno Unito. Tuttavia, questo nella pratica non cancella affatto la discrezionalità da parte delle autorità, da cui discende il rischio di un’indebita regolamentazione delle assemblee spontanee. Qualche misura di protezione, o una procedura semplificata, si applica alle fattispecie in esame in Lussemburgo, Spagna e Svizzera. Nei Paesi Bassi e in Portogallo, sebbene la legge non ne preveda una protezione specifica, sono generalmente autorizzate a svolgersi.
Un altro punto di analisi è quello degli oneri imposti agli organizzatori delle riunioni pacifiche. Ciò che emerge dalla ricerca, è che esiste un ampio spettro di “obblighi, restrizioni e disposizioni problematiche in materia di responsabilità che vengono imposte a chi organizza assemblee pacifiche” Se la mancata notifica o richiesta di autorizzazione comporta sanzioni amministrative e penali per gli organizzatori in alcuni dei 21 Paesi esaminati, esiste anche una legislazione, ad esempio in Austria, Cechia, Ungheria, Turchia, che limita la possibilità di organizzare proteste a determinati “cittadini” o ponendo restrizioni di età , si limita la capacità dei minori di organizzarle. Molti degli obblighi e delle restrizioni cui si riferisce la ricerca sono, secondo Amnesty, ingiustificati ed eccessivi, non soddisfacendo i “requisiti di legalità, necessità e proporzionalità stabiliti dal diritto internazionale, anche quando si basano su disposizioni vaghe o ambigue” e hanno “natura discriminatoria”.
La criticità si pone anche qualora le leggi di alcuni paesi impongano a chi organizza l’obbligo di mantenere la sicurezza e l’ordine durante le riunioni di protesta pacifica. Ciò succede nella Repubblica Ceca, Finlandia, Ungheria, Portogallo, Serbia, Slovenia, Spagna, Svezia, Turchia. Esiste anche in alcuni Paesi l’obbligo o la richiesta da parte delle autorità di organizzare e pagare o contribuire ai costi dei servizi di sicurezza privati o a stewarding (Finlandia, Serbia, Svezia, Slovenia). La ricerca ha portato alla luce “disposizioni e pratiche allarmanti in tutti i paesi, che destano preoccupazione per i costi aggiuntivi imposti a chi organizza per esercitare il diritto di riunione pacifica, ad esempio per i costi dei servizi pubblici durante un’assemblea, come la pulizia delle strade, la gestione e/o sicurezza e la fornitura di servizi di emergenza, disposizioni vigenti in Ungheria, Paesi Bassi, Portogallo, Svezia, Slovenia, Svizzera. In alcuni paesi, organizzatrici e organizzatori sono gravati da ulteriori responsabilità per le azioni di altri e dai relativi costi , in Austria, Ungheria, Svizzera, Grecia, Polonia, Spagna, Turchia. .In alcuni paesi, tuttavia, sono state individuate disposizioni che consentono la difesa con l’argomento della “ragionevole scusa” o simili, che possono essere utilizzati da organizzatrici e organizzatori per circoscrivere la loro responsabilità (Austria, Ungheria, Spagna, Grecia).
La domanda è: la funzione di mantenere l’ordine e la sicurezza pubblica è delegabile o dovrebbe sempre rimanere di competenza delle agenzie statali? Richiedere legalmente agli organizzatori di contribuire ai costi di gestione o di sicurezza, o di pulizia pubblica o di servizi medici, o di nominare degli steward, è compatibile con gli obblighi degli stati? domande si potrebbe dire retoriche, per la tradizione occidentale dello Stato, e come tali le ritiene esplicitamente la stessa ricerca svolta da Amnesty International. Tuttavia, non si può negare che il fatto che esistano in Europa prassi o disposizioni simili, pone un problema nuovo di percezione delle stesse classi politiche al potere.
Altro tema di preoccupazione messo in luce dal rapporto di Amnesty è la gestione delle proteste. Il tema riguarda in particolare le forze dell’ordine. Quando si ricorre all’uso della forza, la polizia deve assicurarsi che il suo utilizzo sia regolato in modo esaustivo dal diritto nazionale e che sia impiegato rigorosamente solo se necessario e proporzionale all’obiettivo legittimo. Qualsiasi uso della forza deve essere guidato da “principi di precauzione, non discriminazione e responsabilità, e rispettare pienamente i diritti umani, compresi il diritto alla vita e il divieto di tortura e altri maltrattamenti”.
Se i Paesi esaminati nel rapporto rapporto hanno leggi e regolamenti che disciplinano l’uso della forza da parte della polizia, la maggior parte di essi “non dispone di norme specifiche sull’uso della forza” nel contesto delle proteste. “La maggior parte dei paesi non delinea esplicitamente nella legge un approccio per la de-escalation prima di ricorrere all’uso della forza durante una protesta. Pochi hanno regolamenti dettagliati e, anche quando sono disponibili, non sono pubblici, il che rende difficile valutare la loro conformità agli standard internazionali sui diritti umani”
Un punto importante riguarda le attrezzatture e le armi in dotazione alle forze dell’ordine, il cui uso è delineato dalla legge e dagli standard internazionali sui diritti umani. L’uso è delimitato a circostanze specifiche e limitate, dal momento che è alto il rischio di danni inferti a manifestanti pacifici o a passanti, compreso quello di lesioni gravi o di morte. Tuttavia, solo pochi paesi dispongono di una legislazione specifica sulle attrezzature, le armi e le tattiche di gestione delle assemblee, soprattutto per quanto riguarda l’uso generico della forza, la dispersione e il contenimento.
Nella ricerca sono sottolineati casi in cui l’impatto devastante delle armi in utilizzo alle forze dell’ordine, è stato documentato da diverso tempo da Amnesty International in paesi come Belgio, Francia, Grecia, Paesi Bassi, Polonia, Serbia, Spagna, Turchia e Regno Unito. Nel periodo compreso tra il 2020 e il settembre 2023, sono state registrati da Amensty International casi di lesioni gravi e talvolta permanenti tra i manifestanti, inclusi giornalisti che documentavano le proteste, tra cui fratture di ossa o denti in Francia, Germania, Grecia e Italia, perdita dell’udito (Grecia), ustioni (Grecia), perdita di una mano (Francia), danni agli occhi e gravi traumi cranici (Spagna). Non mancano casi di ferite inflitte a minori (Belgio, Finlandia, Francia, Italia, Germania, Polonia, Serbia, Slovenia, Svizzera). In alcuni paesi, si legge nel rapporto, sono stati riportati episodi di uso della forza che equivalgono a tortura o altri maltrattamenti, con casi di agenti che hanno “picchiato o preso a calci manifestanti che erano già stesi a terra e/o non opponevano resistenza (Francia, Germania, Ungheria, Portogallo, Slovenia, Serbia, Spagna)”.
Uno dei punti più controversi circa la violazione del diritto alla protesta pacifica è la detenzione amministrativa, consentita in svariati Paesi , tra cui Belgio, Francia, Germania e Svizzera. Tale legislazione, denuncia Amnesty International, “è sempre più utilizzata in questi paesi per impedire alle persone di partecipare alle proteste”. Fra gli esempi riportati dalla ricerca, in Germania “la detenzione amministrativa è stata spesso utilizzata contro gli attivisti per il clima nello stato della Baviera, Berlino e Westfalia del Nord, con attivisti che sono stati trattenuti fino a 30 giorni (in Baviera)”. Ancora, casi di detenzione preventiva sono stati documentati anche in Francia, Paesi Bassi, Portogallo, Serbia, Svizzera e Turchia.
La ricerca tocca altri svariati punti critici, fra cui i diritti dei minori che partecipano e organizzano proteste pacifiche, il ruolo degli atti di disobbedienza civile, sempre più delimitati da normative nazionali che li costringono alla stregua di danno alla quiete pubblica o ad esempio, per richiamare un provvedimento recentissimo allo studio delle aule parlamentari, il disegno di legge 1660 dell’Italia sottoscritto da ben tre ministri (Crosetto, Piantedosi e Nordio) l’impedimento al traffico attuato anche con sit in pacifici sul suolo stradale, con l’aumento delle sanzioni previste.
In tutto ciò, particolarmente inquietante si rivela la partita che riguarda gli strumenti digitali utilizzati per la sicurezza in tutta Europa. Questi strumenti sono in grado come noto di realizzare “una sorveglianza mirata e di massa delle persone che manifestano, invadere la loro privacy, tracciare, monitorare, raccogliere, analizzare e archiviare le loro informazioni”. Spesso metodi sofisticati come il riconoscimento facciale digitale vengono utilizzati con tecniche tradizionali di tipo intimidatorio come le visite a casa delle persone attiviste. In generale, le ragioni che adducono gli Stati per l’utilizzo di queste tecnologie avanzate riguardano ragioni di sicurezza pubblica nazionale e di protezione dei cittadini.
Amnesty International “riconosce pienamente che gli stati hanno l’obbligo di proteggere la sicurezza dei cittadini e, di conseguenza, possono in alcuni casi legittimamente (compatibilmente con la legge) avere bisogno di condurre una sorveglianza segreta, compresa l’intercettazione e il monitoraggio delle comunicazioni private.
Tuttavia, è importante segnalare che la sorveglianza delle proteste interferisce con i diritti alla privacy, alla libertà di espressione e alla riunione pacifica e può sia compromettere l’agevolazione del diritto di riunione pacifica sia violare direttamente tale diritto”.
In altre parole, per rispettare gli obblighi internazionali sui diritti umani degli stati, qualsiasi legislazione o pratica che consenta agli agenti delle forze dell’ordine di intraprendere la sorveglianza delle proteste “deve contenere salvaguardie adeguate a prevenire restrizioni ingiustificate o interventi arbitrari nell’esercizio dei diritti e fornire una trasparenza e un controllo giudiziario in grado di prevenire e affrontare gli abusi, nonché un effetto di dissuasione sull’esercizio dei diritti delle persone”.
Se questi sono i principi, bisogna dire che dalla ricerca di Amnesty, in tutti i 21 paesi esaminati esistono leggi che pur con svariate differenze, regolano la tutela del diritto alla privacy e di altri diritti che possono essere lesi dalle pratiche di sorveglianza, tra cui i diritti di riunione ed espressione pacifica. Ma queste garanzie si rivelano a volte inadeguate, “dal momento che le leggi dedicate o mancano o si basano su poteri troppo ampi e generici in alcuni
paesi, oppure le garanzie in vigore sono inadeguate per assicurare che la sorveglianza venga autorizzata e portata avanti in conformità con i diritti umani (Grecia, Regno Unito)”.
Inoltre, Amnesty International segnala che le telecamere di sorveglianza video/fotografica sono sempre più utilizzate dalla polizia in numerosi paesi, sollevando dubbi “circa la necessità e la proporzionalità del loro impiego e la legalità della conservazione delle registrazioni per usi futuri (Belgio, Francia, Germania, Italia, Irlanda, Grecia, Lussemburgo (proposta) Paesi Bassi).
Arrivando alla tecnologia di riconoscimento facciale, la ricerca rileva trattarsi di un metodo in rapida crescita utilizzato dalla polizia per la sorveglianza delle assemblee. Tra i paesi dell’Ue, le forze di polizia di Austria, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Paesi Bassi, Slovenia e Ungheria impiegano già questa tecnologia (Trf) nelle loro indagini penali e si prevede che paesi come la Repubblica Ceca, il Portogallo, la Spagna e la Svezia seguiranno questa tendenza. Anche nel Regno Unito si è registrato un recente e sostenuto aumento dell’uso della tecnologia di riconoscimento facciale da parte delle forze dell’ordine, incluso durante le proteste. il problema che solleva Amnesty International in proposito è che l’uso del riconoscimento facciale per l’identificazione equivalga” a una sorveglianza di massa indiscriminata e che quindi, se utilizzata durante le assemblee, possa costituire un’interferenza sproporzionata con i diritti alla privacy e alla libertà di espressione,
associazione e riunione pacifica”.
Infine, la ricerca segnala pratiche di agenti di polizia che hanno effettuato visite ingiustificate a casa dei manifestanti, in alcuni casi chiedendo loro di non partecipare alle proteste programmate (Paesi Bassi, Polonia, Serbia), in altri casi si sono verificate circostanze in cui agenti di polizia hanno agito sotto copertura infiltrandosi nei movimenti sociali , mentre alcuni Stati utilizzano correntemente il monitoraggio dei social media per raccogliere informazioni sulla partecipazione ad assemblee pacifiche. In alcuni casi, si legge nel rapporto, le persone sono state perseguite, o minacciate di esserlo, dopo
essere state etichettate come “organizzatrici” semplicemente per aver condiviso informazioni sulle proteste sui social media che erano monitorati dalle autorità (Francia, Paesi Bassi, Polonia, Serbia, Turchia)”.
Al netto di tante altre restrizioni e limiti (discorso a parte viene fatto per l’obbligo di non coprirsi il volto nel corso della protesta, che in alcuni Paesi, fra cui l’Italia, ha rilevanza penale) il rapporto di Amnesty International conclude con una sorta di lista delle raccomandazioni rivolta agli Stati, Fra di esse, allineare pienamente le leggi nazionali con le leggi e gli standard internazionali sui diritti umani; valutare e affrontare qualsiasi potenziale impatto discriminatorio di leggi, politiche e pratiche sul diritto alla libertà di riunione pacifica ; affrontare l’impunità diffusa per le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze dell’ordine durante le proteste e prevenire l’uso eccessivo e non necessario della forza; fermare tutti i discorsi e la retorica stigmatizzanti che alimentano stereotipi dannosi ai danni dei manifestanti pacifici .
foto di repertorio, Luca Grillandini