Il 16 settembre è rubricato nelle agende politiche come l’anniversario dell’omicidio di Mahsa Amini a Teheran. Arrestata perché non portava bene il velo e uccisa dopo un brutale pestaggio dalla polizia iraniana.
Fuori dall’Iran, la mobilitazione, dopo i primi giorni di generale interesse e vicinanza, sembra aver perso tono. Le notizie che giungono in Italia da quel Paese hanno ormai assunto la dimensione della consuetudine, sommerse da altre emergenze, vere o presunte, globali o intrinseche ai tanti problemi di casa nostra. Si procede come vuole la regola principale della Policrisi: l’allarme scatta solo a cose fatte e aumenta d’intensità rafforzandosi in reciproca sinergia nel susseguirsi degli eventi che lo scatenano.
D’altronde, la mobilitazione internazionale per i diritti umani in Iran (e, per altri versi, in Afghanistan), seppur animata una sollecitudine superiore alla stanca media di altre crisi, fatica a produrre risultati. Un impegno contrassegnato principalmente da mobilitazioni sulle piattaforme social, che ha quantomeno evitato l’isolamento della resistenza iraniana. E non è un risultato da poco. Ora si dovrebbe però ripartire dalla costatazione dell’insuccesso per rilanciare in altre forme questa sacrosanta campagna, affrontando con ferma determinazione la questione che è alla radice del fallimento di ogni mobilitazione: lo stato di salute della giustiziabilità delle violazioni dei diritti umani cosiddetti “universali”.
I diritti umani sono veramente universali o sono piuttosto l’espressione di un tipo particolare di essere umano e dunque inadatti a esprimere interessi, valori, bisogni di esseri umani diversi? Valgono per le donne (e gli uomini) in Iran? Per le donne, gli uomini e i bambini, ammassati a Lampedusa o sparpagliati nelle periferie italiane in attesa di un riconoscimento di diritti minori e amministrativi? Valgono per le tante persone private a vario titolo della libertà o delle risorse vitali per mano di altri umani, o da guerre e catastrofi ambientali?
La Francia inizia a respingere i migranti utilizzando droni. Altri Paesi li usano come armi (geo)politiche di massa. Il mondo sta cambiando sotto i nostri occhi, e le critiche al proclamato universalismo dei diritti cadono nel vuoto in assenza di risposte. I diritti universali sempre più sembrano rispondere a scelte e realtà particolaristiche e discriminatorie o addirittura assimilazioniste: è la teoria del relativismo giuridico. Una tendenza cui il giuspositivismo internazionale non ha sin qui saputo proprio cosa e come rispondere.
L’universalismo dei diritti umani non è, quindi, un dato acquisito. E non è neanche un obiettivo raggiungibile attraverso il confronto e il dialogo: il mondo globalizzato sta andando a pezzi e ognun percorre la sua strada senza voltarsi indietro. Lo vediamo tutti i giorni, anche nelle nostre città lucidate per il turismo internazionale: la marginalità che dorme in strada nascosta da qualche cartone, o nei ricoveri dell’ultimo secondo.
Va però detto con chiarezza che alle radici dell’ineffettività dei diritti umani non ci sono soltanto ragioni economiche e scelte politiche, c’è anche la loro inadeguatezza a specifiche situazioni. Un tempo si sosteneva che la dimensione della comunicazione tra culture fosse necessaria per lasciarsi alle spalle l’impronta evoluzionistica che ancora impregnava l’ideologia dei diritti umani. Un’impronta inevitabile per il lento processo di crescita giuridica che ha accompagnato sino a oggi l’enunciazione di questi diritti. Bisognava solo rimanere saldi nel sostenere le funzioni che a quei diritti erano state storicamente assegnate dal Settecento europeo a oggi, dalla Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776 e dal successivo Bill of Rights del 1791 alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 in Francia.
Il processo che ha caratterizzato la storia dei diritti umani (diritti civili e politici, libertà fondamentali e più tardi diritti sociali) è stato lungo e accidentato. Sono stati teorizzati tra Cinquecento e Seicento, dichiarati nel Settecento, si sono moltiplicati, positivizzati e nazionalizzati nell’Ottocento, e, infine, universalizzati e internazionalizzati nel Novecento. Per la storica Lynn Hunt sono stati addirittura “inventati” nel Settecento. I diritti umani, comunque, non sono un dato assoluto ma un prodotto della storia, in particolare della cultura europea almeno fino alla seconda metà del Novecento. E qual è il problema? Il problema è che in questo scorcio di nuovo millennio, a causa della frammentazione giuridica derivata dalla crisi delle organizzazioni internazionali, si rischia di tornare dritti al punto di partenza. Senza neanche passare dal via.
Dunque, che fare oggi? Nel momento in cui la scarsa giustiziabilità ed effettività dei diritti umani e sociali è ancora più evidente, tutto appare più effimero. Non è pessimismo, ma la constatazione di una reale necessità: configurare al più presto una nuova dottrina giuridica dei diritti umani nel mondo. Iniziando però, proprio dal luogo in cui si vive, per evitare di perdersi nuovamente nell’effimero.
La situazione in Iran potrebbe nel frattempo offrire la possibilità di esercitare un tentativo di giustizia penale internazionale. Una via impervia, certo, che però potrebbe aprire una nuova interessante strada del diritto: la raccolta delle prove.
Recenti esperimenti nel settore della giustizia internazionale sono stati condotti, infatti, proprio nel campo della documentazione delle atrocità e della raccolta di materiale probatorio, da preservare e mettere a disposizione di eventuali futuri tribunali competenti quando sarà possibile rendere giustizia. Ricordo qui il “Meccanismo internazionale indipendente e imparziale per dare assistenza nelle indagini sui crimini commessi in Siria dal marzo 2011” (Iiim, approvato con risoluzione dell’Assemblea generale ONU 71/248 del 21 dicembre 2016) e il “Meccanismo investigativo indipendente per il Myanmar (Iimm, realizzato con risoluzione del Consiglio diritti umani ONU 39/2 del 27 settembre 2018). Due “Meccanismi” di giustizia internazionale incaricati di svolgere un’attività di raccolta, consolidamento, salvaguardia delle prove dei crimini commessi in quei paesi e preparazione di dossier per eventuale processi. La raccolta delle prove, infatti, è la parte più complessa della giustizia internazionale, e i due Meccanismi sopra descritti sono stati definiti “quasi-prosecutorial” (ossia quasi pubblici ministeri).
In Iran, la dispersione delle testimonianze e delle prove, è un rischio concreto. Su questo aspetto di giustizia internazionale si potrebbe anche rinnovare il movimento che dall’esterno sostiene la resistenza interna. Le tutele riservate ai diritti umani troverebbero una strada effettiva all’interno dell’avanzamento della giustizia penale internazionale, l’unica oggi in grado di rispondere alle domande sul senso universale dei diritti umani, così come sono stati concepiti nella Dichiarazione ONU del 1948.
Foto di Luca Grillandini