Il Caso Cospito non è il caso di Alfredo Cospito. Ormai è qualcosa di più esteso, che si è sviluppato in altri ambiti: politici, etici, e costituzionali. Un caso che ha sollevato per la prima volta in Italia la questione dell’eutanasia in carcere. Se cioè un detenuto può decidere sugli aspetti conclusivi della propria vita biologica in conformità a eventi esterni, come una malattia terminale o la sofferenza psicologica irreversibile. In Italia non è ancora possibile, né fuori né dentro il carcere. L’Italia è il paese della sofferenza riparativa e penitenziale.
In Belgio, pur alla presenza di una legge che permette il suicidio assistito per cause di sofferenze psichiche insopportabili e incurabili, per Frank Van Den Bleeken, uno stupratore seriale in carcere da trent’anni per l’omicidio di una diciannovenne, e per altri quindici detenuti, non fu comunque possibile eseguire la procedura della buona morte.
In Spagna, invece, alla richiesta del detenuto Marin Eugen Sabau, conosciuto come “il pistolero di Tarragona”, colpito da tetraplegia irreversibile, le corti supreme dettero il via libera al suicidio assistito.
In entrambi i paesi europei, il dibattito politico e giuridico è stato ampio, intenso e molto interessante. Le frontiere del diritto si sono aperte a nuove valutazioni tra merito politico, attese giustizionaliste e garantismo sui diritti individuali del fine-vita. In Belgio, per esempio, Frank Van Den Bleeken chiese di morire a causa di un disagio psichico ormai insopportabile, ma per i familiari della vittima la “pena di morte assistita” era troppo lieve per il delitto commesso, sostenendo così la tesi della sofferenza perpetua a vita. Le corti di giustizia dettero ragione prima al detenuto, per poi cambiare idea dopo l’intervento dei familiari della vittima.
Temi affascinanti e terribili, pieni di contraddizioni e di una complessità straordinaria, che però consentirebbero, con un minimo di coraggio, di affrontare con un altro respiro il futuro del senso della pena. Un futuro che ancora non si ha l’audacia di sfidare.
Morire di morte volontaria sotto gli occhi di tutti in carcere non si può, è un’infrazione (Art. 77 Regolamento Penitenziario), e la responsabilità omissiva, in questo caso penale (Art. 580 c.p., aiuto al suicidio), potrebbe ricadere anche sulla direzione dell’istituto penitenziario, la quale ha perciò il dovere di intervenire. È probabile pertanto che per Alfredo Cospito scatti la più classica delle soluzioni, a meno d’imprevisti di altra natura sul fronte politico: il trasferimento coatto in ospedale e un TSO, il Trattamento Sanitario Obbligatorio (Legge 833/1978) ovvero “una serie di interventi sanitari che possono essere applicati in caso di motivata necessità ed urgenza e qualora sussista il rifiuto al trattamento da parte del soggetto che deve ricevere assistenza”.
Alfredo Cospito ha però firmato una DAT (Disposizione Anticipata di Trattamento), prevista dalla legge 219/2017, con la quale esprime la volontà di rifiutare l’alimentazione forzata in caso di perdita di conoscenza. Che cosa accadrà? Tra un possibile conflitto tra TSO e DAT, a mio parere, non può che prevalere, in punta di diritto, il dovere di intervento del TSO contro le disposizioni contenute in una DAT bislacca come quella di Cospito: la sua non è una malattia terminale, ma l’espressione di un’esplicita volontà suicida. Un detenuto è sotto la responsabilità di trattamento da parte dello Stato, e i suoi diritti sono compressi per esigenze di varia natura, tra cui la protezione stessa della vita della persona.
Rimane il dubbio su chi sia il titolare del percorso amministrativo di disposizione del TSO. Il Sindaco, come massima autorità sanitaria del Comune, ha titolarità per i cittadini residenti, ma un detenuto, anche dal punto di vista sanitario, ricade sotto la giurisdizione esclusiva del DAP. Lo status giuridico di una persona detenuta non è lo stesso di un cittadino: è questo che ancora sfugge, a mio parere, a molti.
Non avrei dubbi, invece, se un altro Caso Cospito si materializzasse nel Regno Unito. L’ordinamento giuridico di quel Paese farebbe prevalere sempre e comunque il diritto di scelta dell’individuo: basti qui ricordare la vicenda di Bobby Sands, e degli altri militanti IRA, che si è lasciato morire per fame in carcere. Con la soluzione TSO, terribile sotto molti punti di vista, umani, giuridici e politici, la direzione sarebbe sollevata da ogni responsabilità.
Che cosa potrebbe accadere a Cospito non lo so, ma le responsabilità a questo punto sarebbero di altra natura. Il Caso Cospito ha dunque messo il dito sulla piaga dell’esecuzione della pena, ma non sulla sua funzione. Si parla del 41 bis e non del carcere di cui quel regime è solo un aspetto. Sono più di cinquantamila i detenuti nei vari circuiti, di cui circa 740 al 41 bis. Il Caso Cospito si è ridotto a una fenomenologia politica di carattere singolo e unitario, finita nel marasma delle pessime dinamiche tra governo e opposizione.
Per molti il 41 bis è incostituzionale. A mio parere, non lo è pur avendo parecchie pratiche applicazioni che lo sono. È forse da abolire in futuro per ragioni di ordine politico, ma non legate al diritto. La Corte Costituzionale è stata chiara (sentenza 376/1997), le difficoltà del 41 bis “appaiono addebitabili ad una erronea o cattiva applicazione del sistema normativo, e non alle conseguenze inevitabili dell’applicazione della norma denunciata”.
Erronea e cattiva applicazione. Nel tempo, infatti, alcune di queste pratiche applicazioni sono state dichiarate illegittime: divieto di cucinarsi il cibo in cella, censura della posta con il difensore, la singola ora d’aria. Il controllo di giurisdizione ha funzionato, ed è questa la strada da seguire. Il 41 bis oggi è punitivo, afflittivo, e per molti finalizzato alla collaborazione del detenuto sottoposto a quel regime. Ma così non deve essere, non deve diventare “carcere duro” istituzionalizzato e va riportato nell’alveo costituzionale della legge.
Il rischio, però, è tornare a un clima di tensione, all’emergenza: il viagra del 41 bis. Sarebbe la peggior cosa, il peggior regalo per lo stesso Cospito. Anche perché ormai il Caso Cospito, è anche il Caso Nordio, il Caso Donzelli, eccetera. È, in altre parole, il Caso Giustizia. E soprattutto, per uscirne tutti con dignità politica sarebbe arrivata l’ora di aprire un dibattito concreto, finalizzato a rivoluzionare la funzione e l’esecuzione della pena nel nostro ordinamento, estendendone il significato alla giustizia riparativa.
Nella foto il carcere di Opera
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