Amy se n’è andata. Spero che ora riesca finalmente a trovare quella pace, quell’equilibrio, quella consapevolezza di sè che invano ha cercato nella sua breve, ma intensissima vita.
Non sono mai stato un suo accanito fan (seguo altre cose), ma la sua voce, con quella timbrica e particolare profondità, non smetteva di affascinarmi. “Back to Black” rimarrà in eterno, con il suo straordinario mix di soul, blues e rock’n’roll. La critica, con la sua caratteristica smania di inglobare in termini precisi ogni espressione artistica, la paragonava spesso ad Aretha Franklin. Ebbe il suo biennio d’oro tra il 2007 e il 2009, vinse i Grammy e le radio londinesi non smettevano di “passarla” sulle loro frequenze.
Amy, con le sue ossessioni, con le sue paure, con i suoi eccessi (spesso tipici del mondo del rock) smontava, anzi distruggeva, tutto quello che creava per poi ricostruire, senza riuscire a porre freno a questa ansia di autodistruzione che periodicamente la portava ad essere ricoverata in una delle tante cliniche per la disintossicazione. Qualche mese reggeva, qualche concerto riusciva a portare a termine, ma i suoi demoni, inevitabilmente, la aspettavano.
C’era, secondo me, tanto di rock nella sua vita, molto più che nella sua musica. Lontana (grazie a Dio) dal politically correct che vuole tutte le star perfettamente inserite nello star system, Amy sembrava vivere un’impari lotta con la propria vita. A nulla è servito possedere una voce (quasi) unica, in un periodo storico/musicale avaro di pure qualità; ancor meno era servito il successo, che sembrava scivolarle addosso rendendola impermeabile alle responsabilità della popolarità.
Mi chiedo, spesso, se serva approfondire quel pensiero di Nathalie Ginzburg che recitava più o meno così (penso a proposito di Charles Bukowsky): “…credo che dentro i grandi artisti (dove la parola grande non ha il significato attuale della popolarità e della celebrazione continua, ma del saper rompere schemi, ideare linguaggi nuovi ecc. ecc.), credo che dentro i grandi artisti vi siano lotte, sofferenze, disagi, ossessioni che quasi sempre sono la causa della loro grandezza creativa”.
Mi chiedo quanto siano forti questi demoni, così forti da non riuscire a trarre il benché minimo beneficio in quello che banalmente possiamo chiamare successo, o nell’adorazione dei fan, o più semplicemente nell’essere riusciti a fare quello che in teoria si desiderava di più.
La storia del rock è piena di eccessi e di inevitabili decessi.
Amy aveva voce e tanta; quando le sue vene erano libere dalle porcherie, sembrava una piccola e smaliziata ragazzina degli anni ‘50; pareva persino riservata, con quel look che solo apparentemente codificava aggressività. Quando sorrideva, e non era certo un sorriso “perfetto”, sorrideva con calore. Quando sul palco riusciva a dare il meglio di sè sembrava in totale sintonia con la sua musica. Atmosfere rarefatte, spesso quasi buie, una sorta di tristezza continua che metteva in evidenza tutte le sue doti canore.
Alla fine (le immagini di Belgrado del mese scorso furono ahimè il campanello d’allarme più serio) i demoni hanno vinto, sottraendoci per sempre una meravigliosa e malinconica voce.