Firenze – Casa, il nodo della questione è: come mai dopo circa un secolo di politiche abitative pubbliche, nessuna di queste è riuscita a eliminare il tema dell’esclusione abitativa dalle nostre società occidentali?
Il tema non è da poco, dal momento che, come oramai è senso comune, sulla questione abitativa si giocherà una partita fondamentale per la tenuta sociale delle società occidentali, almeno europee. Infatti, uno dei dati salienti che viene sottolineato in particolare dal professor Agostino Petrillo nel corso del Festival della Nuova Città che si è tenuto a Fiesole, dal 9 all’11 settembre scorso, , organizzato dalla Fondazione Michelucci, che verteva sulla trasformazione della città compreso il tema della Casa e dell’Abitare, è che la questione abitativa da settore che interessa in buona sostanza una fascia marginale della popolazione europea, sta estendendosi diventando un fenomeno di massa che riguarda i vari Paesi, ma in particolare quelli che, come l’Italia, si erano illusi di aver risolto il problema introducendo la cosiddetta “monocultura” della proprietà, ovvero diffondendo la proprietà privata il più possibile fra i cittadini.
Un meccanismo che ha prodotto i suoi effetti fino agli anni ’90, quando gli italiani, almeno apparentemente, si sono trasformati in un popolo di proprietari, con una percentuale di titolari che è passata dal 45% del dopoguerra al 78,80%. Un risultato di breve respiro, dal momento che si sta già da qualche tempo riducendo, causa pignoramenti, difficoltà a pagare rate di mutui e via di questo passo, con la prospettiva che il rialzo dei tassi da parte della Bce, teso ad addomesticare un’inflazione non addomesticabile con strumenti ordinari data la sua natura speculativa, rendano ancora più veloce e sanguinoso il calo.
Alcuni dati europei inoltre regalano un punto di vista inedito su quello che cela la diffusione della proprietà per quanto riguarda la casa e in particolare la casa d’abitazione. Ad esempio, i Paesi più ricchi d’Europa sono quelli in cui la proprietà è minore. In Germania, la percentuale degli affitti nelle grandi metropoli si aggira sul 45%, mentre a Berlino si arriva fino, in certi quartieri, all’80%. Una situazione che è molto simile in generale nel Nord Europa, dove il concetto di casa ed abitare ha sempre storicamente trovato posto nel sistema di welfare. Ma il dato interessante è, come sottolinea Petrillo, che, a prescindere dalle varie politiche abitative tenute dai vari Stati, da dieci anni a questa parte, come conferma il Report 2021 dell’associazione Abbè Pierre, si è registrato un aumento generalizzato degli immobili e degli affitti, questi ultimi di almeno il 16% in più.
Tanto basta a rendere inevitabili vere e proprie rivolte popolari, come il referendum consultivo tenutosi a Berlino il 26 settembre 2021, annullato dalla Suprema Corte ma che ha posto un problema politico non irrilevante a tutta la classe politica tedesca, dal momento che ha vinto fra i cittadini l’idea che fosse equo e doveroso requisire buona parte delle proprietà in mano ai fondi immobiliari e tenute vuote per una sorta di speculazione finanziaria riguardo ai prezzi delle abitazioni, o la decisione della municipalità di Amsterdam, che in seguito a un accordo col governo centrale motivato dalle condizioni di crisi, fa pagare sanzioni pecuniarie ai proprietari che tengono vuoti uffici o abitazioni per oltre sei mesi.
Comunque, qualcosa è successo, qualcosa che ha creato un corto circuito tale che tutto il sistema dell’abitare europeo si è trovato sull’orlo dell’implosione. I motivi sono sia di ordine economico che sociale, alcune volte innestandosi su situazioni particolari dovute a particolarità nazionali. Fra i motivi storici, da segnalarsi in primo luogo, il cambio di mentalità che avviene agli inizi degli anni ’90 e ha molto a che fare col passaggio, nella coscienza comune, dal concetto di casa come diritto, a casa come strumento economico. Un passaggio che collima con il mutamento cui vanno incontro le città, con l’accelerarsi di quel fenomeno che, pur avviatosi negli anni ’60-’70 del secolo scorso, diventa il motore principale del cambiamento dei centri urbani, prodromo di molte trasformazioni, ovvero la cosiddetta gentrification.
Sul punto, sono particolarmente chiare le parole del sociologo Giovanni Semi, che, raggiunto per un’intervista, spiega: “Negli ultimi 30-40 anni, a cambiare è stato il senso della casa, passata da bene principalmente d’uso a bene maggioritariamente di scambio. Insomma, la casa, attraverso i noti processi di finanziarizzazione (si pensi ai mutui per accedervi) e di riduzione progressiva delle locazioni a buon mercato per fasce ampie della popolazione, si è sempre più trasformata in mezzo di accumulazione e trasferimento di ricchezza, perdendo così il proprio valore originario come tutela, protezione, focolare domestico. Se questo processo, in tutte le sue molteplici dimensioni, cresce nel tempo, allora va a incontrare le politiche urbane, quelle di rigenerazione in particolare, e si unisce alla “produzione di urbano per utenti progressivamente più ricchi”, cioè la gentrification. Case più care e oggetto di continua messa in transazione e quartieri sempre più cari e oggetto di costante rigenerazione, sono due facce della stessa medaglia insomma”.
Il punto non è affatto teorico. Infatti, secondo quanto sottolineato dal professor Petrillo nel corso del suo intervento presso la Fondazione Michelucci, “Se si considerano i valori economici assoluti, la possibilità di comprare casa per il ceto medio basso di lavoratori, operai qualificati ecc, è radicalmente ridimensionata: negli anni d’oro del welfare europeo, con 4 anni di salario, un operaio qualificato o un impiegato comprava l’alloggio. Oggi, servono da 15 a 20 anni di salario per acquistare un appartamento modesto”.
Una tenaglia dunque composta da un lato dalla crescita di valore in termini di “riqualificazione” di intere zone delle città, solitamente quelle storiche e popolari che conducono all’espulsione di interi ceti costretti a risiedere nelle periferie con i ben noti problemi; dall’altro, la caduta libera di valore del lavoro, soggetto non solo a precarizzazione sistemica ma anche, in Italia in particolare, alla maledizione dei salari bassi, alla riduzione delle ore lavorate, alla fantasiosa proliferazione dei contratti. Tutto ciò comporta non solo la sistematizzazione di un lavoro liquido, scomposto, poco controllabile, ma anche il dilagare di una classe “nuova”, lo strato sociale dei working poors. Una classe dai confini liquidi, che ingloba sempre più parti di classe medio-bassa, che perde la casa di proprietà per morosità alla rata di mutuo, l’affitto per morosità incolpevole, e per cui non è stato approntato nulla o molto poco. Soprattutto, nonostante gli allarmi lanciati da sindacati, associazioni e movimenti, la politica non è ancora riuscita a dare risposte coerenti con i tempi. Mettendo a rischio la tenuta stessa del tessuto sociale. Del resto, i numeri della povertà “nuova” sono inoppugnabili. Secondo l’Istat, nel 2021 sono circa 15 milioni gli italiani in difficoltà.
Il passaggio dall’approccio alla casa come diritto a mezzo di accumulazione e trasferimento di ricchezza, ha il suo momento plateale con la fine dell’edilizia popolare pubblica che avviene pressapoco nello stesso periodo in quasi tutti Paesi europei. L’Erp in Italia si ferma nei primi anni ’90, negli anni della grandi cartolarizzazioni, come ricorda Petrillo: “L’abbandono, da parte di Spagna e Italia, dei programmi di edilizia popolare, e nel nostro Paese la cessione di parte del patrimonio pubblico (avviata in grande stile dal 1993, con la legge Nicolazzi), hanno creato le premesse per l’esplodere di uno scarto tra domanda e offerta di alloggi, che diviene oggi drammatico in realtà metropolitane come Barcellona, Roma, Milano”.
Tuttavia, altri paesi hanno conservato una quota di Pil da destinare all’edilizia popolare, ad esempio Francia e Germania, che hanno tenuto fermo il 3% circa di Pil per questo scopo. Il Regno Unito, pioniere a suo tempo dell’edilizia popolare, ha cessato quasi completamente la costruzione di case popolari, salvo poi cercare di tornare sui suoi passi.
In tutto ciò, entra in gioco anche un meccanismo, almeno per le città nord europee ma anche italiane, che testimonia come la gentrification stessa sia ormai superata dai fatti. Si tratta dell’estremizzarsi del processo di finanziarizzazione che rappresenta una delle ultime frontiere da parte di grandi fondi d’investimento che riguardano la casa. In parole povere, la casa diventa non solo bene riparo o strumento di produzione di reddito, ma strumento di investimento di medio-lungo periodo. Il meccanismo è ben fotografato dal rapporto della fine del 2020, commissionato dal gruppo dei verdi europei, dal titolo Who Owns the City (“Di chi è oggi la città”).
Non si tratta di acquistare uno spazio immobiliare per trarne profitto, come ha spiegato Petrillo nel corso della relazione alla Fodazione Michelucci, l’affare non è comprare per affittare o vendere, ma cristallizzare sulla città i profitti che sono stati realizzati altrove. Siamo oltre la gentrification, non c’è un nuovo ceto che si impadronisce di vecchi spazi rinnovati, le case rimangono vuote, con fenomeni di espulsione e respingimento verso le periferie, cui corrispondono l’esplosione dei canoni. Una prospettiva che tuttavia non è l’unica, nella logica della spremitura del limone cui viene sottoposto il parco abitativo delle città, con l’ovvio, primario svuotamento del diritto all’abitare della prima fila di fuoco, ovvero giovani e fasce fragili. Un capitale umano sotto tiro anche da un altro punto di vista, vale a dire rispetto alla turistificazione che svuota i centri storici dai suoi abitanti, riducendo drasticamente le case a disposizione della residenza. Un altro tema enorme, che assedia le città d’arte europee, che svuota quelle italiane, contro cui sono stati presentati progetti di legge (uno proprio dal sindaco di Firenze Dario Nardella) uno dei quali, quello per Venezia, passato al vaglio parlamentare.
Tirando le fila, alcuni elementi vanno evidenziati. In primo luogo, la questione delle case e abitativa soggiace ancora all’impostazione degli anni ’90. La politica non ha mai messo al centro dell’agenda la questione abitativa, che pure aveva avuto un grande rilievo nella Prima Repubblica, basti pensare al piano case Fanfani. Il mondo è mutato, alle crisi economiche si sono aggiunti una pandemia e una guerra è in corso, il lavoro è stato dequalificato diventando precario, provvisorio, con tutele deboli in seguito al sostanziale svuotamento dello Statuto dei lavoratori, ma sulla casa le leggi principali rimangono la l.570/93, emessa allo scopo di vendere il 73% delle case popolari, ancora attiva, (a Roma sono ancora in vendita 10mila alloggi, lo dice Enrico Puccini, Osservatorio Casa romano) e la legge 431 /98, ovvero la legge sugli affitti.
Nel frattempo sono stati cancellati l’equo canone, che consentiva di calmierare i canoni, e la Gescal. Quest’ultima non è mai stata rimpiazzata e ad oggi le politiche abitative pubbliche non hanno strumenti di sostentamento propri. A fronte di ciò, in Europa sta ripartendo una nuova politica di edilizia popolare e sociale e non solo. Si assiste ai tentativi di regolamentare canoni e mercato, da quello dell’amministrazione di Berlino sul tetto agli affitti (ad ora congelato dalla Suprema Corte) al già citato successo del referendum, sempre a Berlino, per l’espropriazione di case in mano ai grandi fondi immobiliari. La municipalità di Amsterdam ha invece elevato sanzioni pecuniarie per i proprietari che non si siano registrati presso la città se il loro edificio è vuoto da più di sei mesi. Il vicesindaco Zita Pels, come scrive DutchNews.nl, ha dichiarato: “Abbiamo troppe poche case e molte sono inutilmente sfitte. Al giorno d’oggi è impossibile capire perché le case dovrebbero restare vuote”.
Amsterdam può apportare questa modifica alla sua politica sugli immobili sfitti, grazie al fatto che il governo centrale ha incluso un regolamento separato per la capitale nel decreto sull’attuazione della legge sulla crisi e la ripresa. Il protocollo consente ad Amsterdam di emettere regolamenti che obbligano i proprietari ad affittare case vuote a un prezzo più ragionevole, se lo ritiene necessario. In caso contrario, le autorità cittadine possono multare le società che gestiscono immobili fino a 9.000 euro. Per i privati la multa arriva fino a 4.500 euro.
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