Autonomia differenziata, i rischi e i limiti del disegno di legge Calderoli

Scuola e sanità, aumenteranno le disuguaglianze fra Nord e Sud

Un treno in corsa, che sarà difficile fermare. Il tema dell’autonomia differenziata diventa improvvisamente rovente, grazie all’accelerazione subita con il disegno di legge presentata dal ministro leghista Roberto Calderoli, approvata fra gli applausi dal Consiglio dei ministri il 2 febbraio scorso.

Sul tavolo e senza risposta, rimangono alcune delle domande più inquietanti che riguardano il futuro del nostro Paese, e che vanno dal diritto allo studio alla scuola vista dal versante degli insegnanti e dei programmi, alla sanità, alle tematiche dell’energia, ala lotta alle disuguaglianze che rende ancora il nostro Paese soggetto a fratture storiche. Il problema riguarda direttamente, da quest’ultimo punto di vista, l’impatto sociale ed economico che l’autonomia differenziata avrebbe sulle disuguaglianze ancora feroci nel sistema Paese; senza contare la questione che taglia la testa al toro, ancora non presa in considerazione a giudicare le ultime notizie, che riguarda la costituzionalità dello stesso disegno di legge passato con applausi ed evviva in consiglio dei ministri. Un favore conclamato quello dimostrato dalla maggioranza di governo, che ha delle cadute paradossali, come il continuo insistere di Fratelli d’Italia (non a caso il nome…) sull’italianità, sul patriottismo, sulle forme formali dell’unità d’Italia, salvo poi operare con forza un intenso lavoro in direzione della disgregazione di quell’unità italiana inutilmente proclamata con l’ostentazione del tricolore e dell’inno di Mameli. Pagine di storia patria buttate ai rovi. 

Sul tema, sono molti gli interventi che provengono dal mondo del diritto, ma anche molte le occasioni d’incontro pubblico, a mettere in evidenza che l’argomento, seppur tenuto in sordina dai vertici politici, ha una sua ricaduta mediatica sulla comunità nazionale. Un momento di dibattito molto partecipato, visto anche lo spessore dei relatori, il magistrato di Cassazione Domenico Gallo e la sociologa Franca Alacevich, si è tenuto sabato 19 marzo alle porte di Firenze, nel circolo Arci dell’Antella.

Nella relazione di Gallo, la genesi del disegno di legge Calderoli è ben messa in evidenza, con il riferimento alla riforma del 2001, votata da un governo di centrosinistra, “pensata e votata – ricorda Gallo – per contrastare la politica secessionista della Lega, tagliandole l’erba sotto i piedi.” Approccio sbagliato, che ha dato vita a un risultato pasticciato e soprattutto foriero di pericolose implicazioni e sviluppi per l’intero sistema costituzionale, l’ossatura fondamentale della Repubblica. “Questa riforma contiene errori che adesso si stanno rivelando nel loro carattere eversivo – continua il magistrato – il vizio principale è stato quello di attribuire molto più poteri legislativi alle Regioni, attribuendo loro poteri mai avuti e che probabilmente non andavano attribuiti in quella dimensione”.

Il punto di svolta infatti, ricorda Domenico Gallo,  riguarda la riforma del titolo V della Costituzione del 2001, che, ampliando grandemente l’autonomia legislativa delle Regioni, suddivise la materia in ambiti riservati in esclusiva alla legislazione statale (art. 117 secondo comma), assegnando (terzo comma) alle Regioni la competenza concorrente in ben 23 materie, precisando che “nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata allo Stato”. All’ampliamento inusitato delle competenze legislative regionali si aggiunge anche, al terzo comma dell’art.116, l’introduzione di una sorta di grimaldello che potenzialmente può far saltare il sistema di ripartizione e non solo, persino la necessità di seguire le procedure costituzionali per le modifiche della Carta.

Ed ecco cosa recita l’art. 116 cost. comma 3, dopo la modifica del 2001: Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 (..) possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi d i cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata.”

Domenico Gallo definisce questo principio “un baco” che ha un potenziale del tutto eversivo. Intanto, perché le conseguenze di una sua applicazione non restrittiva, metterebbe in atto, di fatto, un ribaltamento “della riforma che ha tracciato i confini fra i poteri dello Stato e quelli delle Regioni”, sfuggendo  “al procedimento di revisione della Costituzione, di cui all’art. 138”. Una sorta di colpo di stato “bianco”, insomma, che nell’ipotesi resa possibile dalla riforma 2001 e dall’eventuale approvazione del disegno di legge Calderoli,  vedrebbe l’ottenimento alle Regioni della competenza piena in tutte le materie di competenza concorrente e nelle materie di competenza esclusiva dello Stato ovvero istruzione, tutela dell’ambiente, ecosistema e beni culturali, rendendo il nostro Paese l’agglomerato di “repubblichette semi indipendenti”, dove le grandi differenze economiche, sociali, culturali e sanitarie ad oggi presenti diventerebbero non più un ostacolo al raggiungimento di una uguaglianza unitaria dei cittadini italiani, ma uno stato di fatto conclamato e, diciamo così, “regolarizzato”. Il rischio, anzi la certezza, sarebbe, secondo Gallo, l’emergere ad esempio di “20 sistemi sanitari regionali diversi”, ma anche una scuola ancora più fortemente diseguale, con insegnanti sottoposti a gabbie salariali e differenze fra scuole marchigiane, lombarde, venete, toscane e così via. Del resto, la riforma del 2001 ha visto, come prima ricaduta, ricorda Gallo, con la differenziazione fra competenze esclusive e ripartite, un numero altissimo di contenziosi davanti alla suprema corte, ben 2200 in venti anni, a testimonianza della confusione creata. 

Tornando alla natura dell’autonomia differenziata, il vero strumento che la rende blindata contro eventuali contestazioni, è la previsione, sempre all’art. 116, della sua natura pattizia. Questo perché, come spiega Gallo, “il processo di determinazione dell’autonomia si fonda sulle intese stipulate fra il Governo e la Regione richiedente. Una volta raggiunta l’intesa, il Parlamento non può modificarla, può solo approvarla in blocco o rigettarla. Una volta deliberata la legge che approva le intese, non può essere sottoposta a referendum abrogativo. Né l’intesa potrebbe essere modificata con una nuova legge perché occorrerebbe il consenso della Regione interessata, senza il quale l’intesa raggiunta è destinata a durare in eterno”. Una sorta di trattativa privata che produce un’intesa da cui difficilmente si torna indietro, sottratta di fatto al controllo delle Camere. “Si tratta di una breccia – dice Gallo – l’orientamento delle forze politiche è di allargarla”.

Un passaggio importante, previsto dalla legge, e che ad ora, dopo 22 anni, ancora non è stato attuato, è la determinazione, considerata passo necessario per l’attribuzione alle Regioni delle risorse necessarie per procedere all’attuazione dele nuove competenze, dei Lep, ovvero dei Livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Nell’art. 117 Cost., la competenza esclusiva di questa materia è dello Stato. Il passaggio della definizione dei Lep è stato preso per le corna dal ministro Calderoli, che lo ha “infilato” nella legge di bilancio, prevedendo una procedura accelerata per la loro determinazione. Una procedura che dovrebbe concludersi con un Dpcm, ovvero un decreto del presidente del consiglio dei ministri.

Il passaggio è contestato da Gallo (e non solo) in quanto da un lato a determinare i diritti dei cittadini e gli ambiti di applicazione è il Governo e non gli organi elettivi (Parlamento), dall’altro, la “pretesa di attuare il passaggio a costo zero” conduce necessariamente a giocare al ribasso per quanto riguarda il livello dei diritti sociali e civili. Del resto, nella stessa legge Calderoli, laddove si riferisce al trasferimento delle funzioni e delle risorse, si definisce il criterio della spesa storica (spesa destinata a carattere permanente sostenuta dallo Stato (…) ) per determinare le risorse necessarie “per le funzioni relative a ciascuna materia o ambito di materia”. La conseguenza evidente, conclude Gallo, sarà l’irrigidirsi delle differenze.

Se quello illustrato da Domenico Gallo è il quadro giuridico prevalente nei confronti dell’autonomia differenziata nata sulle basi della riforma del 2001 e che ha preso corpo concreto nel disegno di legge del ministro Calderoli approvato dal CdM il 2 febbraio scorso, la docente e sociologa Franca Alacevich affronta il tema da un altro punto di vista, che guarda alle “ricadute sulla tenuta del tessuto sociale della nostra società. Credo che il nostro Paese sia già molto spaccato” e che il progetto dell’autonomia differenziata non “aiuti di certo l’unità sociale” anzi, “metta in moto un’ulteriore meccanismo di corrosione del tessuto sociale”.

Come e con quali modalità, la studiosa avanza esempi concreti. Come la complessa questione della formazione e della scuola, che viene affrontata nel suo risvolto più concreto, partendo dagli asili nido “che hanno visto una strana storia, curiosa e interessante”. Com’è noto, spiega Alacevich, “l’ultima finanziaria del 22, ha introdotto i livelli essenziali di prestazioni per gli asili nido. Si sa che gli asili nido sono molti diffusi al centro, meno nelle isole e al sud. Il finanziamento verrà distribuito laddove i livelli non si raggiungono. Dunque, lo prenderanno quelle regioni e comuni che hanno meno asili nido. Con l’attuazione nei termini previsti dell’autonomia  differenziata, sarebbe impossibile. E’ vero che nella riforma c’è qualcosa circa i fondi perequativi, ma si stabilisce anche che la procedura dovrebbe avvenire senza ulteriori oneri per lo stato. Allora come farebbero le regioni a fare i nidi, proprio laddove mancano?”.

Se i nidi sono un esempio, la questione si complica, secondo Alacevich, se andiamo al processo nel settore scuole e università. “Se la legge è tale che si può procedere alla regionalizzazione di scuole e università non si può evitare di dichiararci preoccupati”. Intanto, alla necessaria osservazione che la formazione dei cittadini avviene in scuole e università, la prima constatazione è che la differenza fra Nord e Sud è altissima. “Secondo i dati resi noti dallo Svimez – dice la docente – un bambino del Sud trascorre a scuola 200 ore all’anno in meno rispetto a un suo coetaneo del Nord. Solo un bambino su 4 al Sud ha accesso al servizio mensa, 3 bambini su 4 in Toscana. Il tempo pieno, che comunque è stato ridotto su tutto il territorio nazionale, vede al Sud meno di un bambino su 5 avere la possibilità di usufruirne, meno di uno su dieci in Sicilia”. Abbiamo divari già oggi, che si riflettono di fronte a queste differenze, e che dovrebbero “spingerci a risanarle, invece proponiamo l’autonomia differenziata, che significa che scuole già ottime verranno implementate ancora, mentre scuole in difficoltà peggioreranno”.

Sempre riguardo al sistema scuola , fu col governo Gentiloni che cominciò la trattativa Stato-Regioni. La “squadra” costituita da Lombardia Veneto ed Emilia Romagna, cominciava a chiedere la regionalizzazione del personale, in particolare  Lombardia e Veneto, mentre la posizione dell’Emilia Romagna era più tiepida. . “Un volume di ricerca e analisi curata da Colucci e Gallo, registrava che i flussi degli  insegnanti nell’ anno accademico 2016-17, vedeva gli insegnanti precari in salita dal Sud a Centro Nord, mentre per gli stabilizzati l’andamento si invertiva. Le regioni di provenienza sono Basilicata,  Sicilia e Campania, quelle di attrazione Lazio, Toscana, Lombardia, Piemonte. I docenti, una volta stabilizzati, tendevano a richiedere il ritorno alle regioni di origine. La realtà, dopo oltre 5 anni, è la stessa. Questi flussi sarebbero interrotti dall’autonomia differenziata, con la conseguenza – spiega Alacevich – che ci saranno realtà in cui mancheranno insegnanti e realtà dove saranno troppi. Al Centro Nord ci sarà bisogno di insegnanti, e per attirarli aumenteranno gli stipendi. Gli insegnanti si dovrebbero stabilire definitivamente, con la necessità di attuare una scelta esistenziale molto più pesante. Alla fine, si verificherebbe una situazione di gabbie salariali”.  

Il problema sull’Università si pone con aspetti diversi, attesa l’autonomia di cui già godono le università come soggetti giuridici. Tuttavia, l’applicazione dell’autonomia differenziata non può che far aumentare le differenze, dal momento che le maggiori risorse di cui godono i vari atenei sono ancorati a un sistema di eccellenze che riguardano ad esempio, il rapporto fra laureati e avviamenti al lavoro. Settori in cui fatalmente le università meridionali sono perdenti.

“Regionalizzare l’organizzazione del personale scolastico e universitario, non risponde solo a una pressione  organizzativa e a necessità  di finanziamento – conclude Alacevich sul punto – l’intento è arrivare a una scuola veneta per i veneti, lombarda per i lombardi e via dicendo, tant’è vero che inizialmente era stato richiesto anche un cambio dei programmi. La formazione diventa tendenzialmente locale. L’unità d’Italia che aveva un puntello nella leva obbligatoria, vedeva i giovani trasferiti dal Veneto alla Sicilia per conoscersi, diffondere la lingua italiana, ecc., secondo il principio di rafforzare e non sgretolare l’unità sociale del Paese”. Ora, con  l’autonomia differenziata sembra prevalere la tendenza inversa.

Che si tratti di un ragionamento generale, di sistema, è messo in evidenza dalla sociologa anche nel campo dei diritti alla persona, primo fra tutti la sanità, che, nonostante i Lef siano stati predisposti e le misure finanziate, non è riuscita lo stesso a ricucire l’enorme iato fra il Meridione e il Centro Nord e che con l’introduzione dell’autonomia differenziata vedrebbe porre una pietra tombale sulle disuguaglianze presenti, come dichiarato anche da Nino Cartabellotta, presidente della fondazione Gimbe in un suo recente intervento. “non basta – dice Alacevich – Le regioni chiedono autonomia anche su materie molto complicate, come tariffe, remunerazioni, aziende sanitarie, gestione fondi integrativi, addirittura (dalla regione Emilia Romagna) si è chiesto di stabilire l’equivalenza fra farmaci, dimenticando che si tratta di compiti che nemmeno una organismo internazionale riesce a risolvere”. In generale, affacciandosi al tema ad esempio delle reti energetiche, delle infrastrutture, ciò che si coglie è l‘enorme complicazione amministrativa e burocratica che l’autonomia differenziata porta con sé, il contrario di quella semplificazione amministrativa chiesta almeno formalmente a gran voce da tutti gli enti locali. Senza dimenticare che un concetto come quello di regionalizzazione dell’energia, dove è necessario, per stessa ammissione del governo, agire in ottica europea, è un paradosso.

Infine, ultima ma non ultima, la preoccupazione culturale. Quando certi interventi vengono sviluppati e corrono, ci sono conseguenze pesanti nel tempo per quanto riguarda l’erosione del tessuto sociale. Conclude Alacevich: “Il tessuto sociale è una trama delicata, ha bisogno di cura, manutenzione, strumenti, spazi, luoghi per la cooperazione, solo attraverso questo si rafforza il principio della solidarietà che informa il nostro sistema costituzionale.  L’autonomia differenziata mette l’accento sulla cultura della valorizzazione degli interessi particolaristici, in un’ottica di appartenenza non alla grande comunità, nazionale, europea, umana, ma alla comunità locale. Gli effetti indiretti di una politica regionalista spinta sono anche questi”. E sono, come la storia insegna, assolutamente pericolosi.

In foto da youtube Domenico Gallo

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